Guanti in lattice, mascherine monouso, erogatori di disinfettante: siamo vestiti e circondati di plastica e paiono secoli fa – mentre si tratta di una manciata di mesi – quando molti di noi brandivano borracce in metallo e sventolavano sacchetti in tela al grido di “plastic free” per liberare il mondo dalla crescente mole di materiali derivati dalla lavorazione del petrolio e non biodegradabili. Ma beatificare la plastica di fronte all’evidenza che può salvarci la vita oggi è tanto sbagliato quanto demonizzarla come la principale colpevole della morte dell’intero Pianeta domani.
La plastica ha permesso di salvaguardare tante materie prime naturali
«Plastic free è uno slogan emotivo e antiscientifico: condanna sotto il nome generico di plastica varie componenti sintetiche che ci danno comodità e sicurezza e sono in continua evoluzione» sostiene Chicco Testa, presidente di Fise Assoambiente (l’associazione delle imprese di gestione rifiuti) e autore di Elogio della crescita felice. Contro l’integralismo ecologico (Marsilio). «I piccoli gesti sono dei placebo per l’anima per cittadini metropolitani che si sentono in colpa e sono sempre pronti a digitare – sui loro cellulari in plastica – lo slogan del giorno. Sono invece i salti tecnologici e i grandi investimenti che possono cambiare le cose: per esempio, sostituire il carbone con fonti meno inquinanti oppure l’auto a combustione con quella elettrica».
Come la mettiamo, però, con la plastica tanto vituperata? «Ci siamo dimenticati che ha sostituito, nella realizzazione di molti prodotti come occhiali e pettini, tonnellate di materie naturali quali il guscio di tartaruga e l’avorio di elefante. Oggi tutti abbiamo a disposizione oggetti meravigliosi che usano materiali avanzatissimi che migliorano la nostra vita da tanti punti di vista, a cominciare da molti dispositivi in ambito sanitario».
Una diversa lettura del plastic free la propone l’antropologa Chiara Spadaro che, con Elisa Nicoli, ha scritto Plastica addio. Fare a meno della plastica: istruzioni per un mondo e una vita zero waste (Altraeconomia): «Ovvio che non si può abolire la plastica in tutti i settori, il titolo del libro è una provocazione per aumentare la consapevolezza, individuale e collettiva. Molti pensano: “Uso la plastica tanto poi viene riciclata”. Ma in Europa, di tutta la plastica prodotta, viene riciclato solo il 35%. L’Italia è un po’ più virtuosa e arriva al 40%, però il nostro sistema di riciclaggio non è pronto per riceverne una così grande quantità. Occorre migliorare il processo e puntare sui materiali durevoli che possono essere usati tante volte e per lunghi periodi. Vanno benissimo, per esempio, gli scolapasta in plastica che “vivono” anni, occhio invece ai prodotti usa-e-getta. E meglio indossare, dove possibile, le mascherine in tessuto lavabili certificate anziché quelle monouso che vanno smaltite nell’indifferenziato e aumentano la quantità di rifiuti non riciclabili».
Bisogna uscire dalla logica dell’usa-e-getta
Fare della plastica un alleato non è sempre facile. Un caso emblematico è quello delle borse di plastica durevole: per produrne una occorre molta più plastica di quella necessaria per gli shopper usa-e-getta, è vero, ma se la borsa viene utilizzata a lungo questa maggiore quantità ha senso e, col tempo, porta a minore spreco e inquinamento. Peccato che uno studio dell’Environmental investigation agency inglese dimostri che le persone spesso la dimenticano a casa e quando fanno la spesa devono comprarne una nuova: l’anno scorso in Gran Bretagna ne sono state acquistate mediamente 54 per famiglia, trasformando così la “borsa che dura una vita” nella “borsa che dura una settimana”.
Neppure le bioplastiche, cioè biodegradabili, sono esenti da criticità. «Spesso non si sa come riciclarle, ogni Comune ha le sue regole» dice Chiara Spadaro. «Questi materiali sdoganati come alternativa positiva non lo sono perché perpetuano la logica dell’economia lineare: uso un prodotto, poi dopo 2 minuti lo butto. Occorre puntare invece sull’economia circolare grazie a cui gli oggetti non vengono scartati ma, dopo che sono stati utilizzati, rientrano nel ciclo d’uso».
Anche sostituire le bottiglie in Pet con contenitori in altri materiali può non essere privo di rischi, come dimostra una ricerca sulle borracce commissionata dalla Fondazione Acqua e realizzata dal Dipartimento di Sanità pubblica e Malattie Infettive della Sapienza di Roma (vedi box). Il coordinatore dello studio, il professor Matteo Vitali, ricorda che «il Pet di cui sono fatte le bottigliette dell’acqua minerale è un polimero del tutto riciclabile che, di per sé, non inquina. Certo che, se lo buttiamo nell’indifferenziato, il discorso cambia».
Sul fatto che cattiva non sia tanto la plastica quanto l’uso scorretto che spesso ne ne fa, come singoli e come industrie, è convinta Rossella Sobrero, promotrice del Salone della CSR (Responsabilità sociale d’impresa): «Siamo noi a causare l’inquinamento dei fiumi che poi si riversano in mare gonfi anche di materiali plastici». E i dati sono impressionanti: secondo il rapporto appena pubblicato dall’Unione internazionale per la conservazione della natura, nel solo Mediterraneo ogni anno sono gettate 229.000 tonnellate di plastica. Ma Sobrero intravede segnali di speranza: «Per esempio, vengono realizzati materiali sempre più efficienti in grado di sostituire la plastica nel packaging. E c’è una spinta costruttiva da parte dei consumatori. Fino a pochi anni fa, se si era critici verso certi prodotti, l’arma era il boicottaggio; oggi organizzazioni come Greenpeace e il Wwf si siedono al tavolo con le aziende per un dialogo che punti sull’impegno comune per la sostenibilità sociale e ambientale».
Cosa c’è nelle borracce
In una recente ricerca dell’università La Sapienza sono state studiate borracce in vari materiali: alluminio riciclato, inox e plastica rigida riutilizzabile. Se ne è simulato per un mese un uso quotidiano: ogni mattina venivano riempite d’acqua e di sera venivano analizzati i campioni. Risultato? Le borracce rilasciavano vari elementi, dal piombo al manganese all’arsenico. Non tutte allo stesso modo: di più quelle in alluminio, seguite da quelle d’acciaio e, poi, quelle di plastica. «La quantità di metalli, semimetalli e non metalli rilevati non superavano i parametri di legge» precisa il professor Matteo Vitali, coordinatore dello studio. «In laboratorio abbiamo usato acqua demineralizzata. Se si mette quella potabile, che pure non sfora i limiti di legge, gli elementi rilasciati dalla borraccia possono sommarsi a quelli presenti nell’acqua stessa. Il rischio, per chi utilizza abitualmente le borracce, è di oltrepassare le soglie considerate sicure per la salute. Non solo. La maggior parte delle borracce che abbiamo considerate non riportano le diciture previste, come le istruzioni per l’uso e il nome del produttore».