I numeri della Pma
«Con Sofia ho attraversato ogni istante della lunga ed eroica avventura per mettere al mondo le nostre due figlie, oggi adolescenti. È la cosa più bella che abbiamo fatto, fianco a fianco, anche se nella mia testa ero sempre un passo indietro». Antonio è diventato padre grazie alla Procreazione medicalmente assistita (Pma), l’insieme delle tecniche per aumentare le possibilità di una gravidanza per una coppia infertile. A quasi 20 anni dalla Legge 40 del 2004 che la regolamenta, secondo gli ultimi dati disponibili dell’Istituto superiore di sanità riferiti al 2021, i nati grazie alla Pma – in Italia ancora preclusa ai single e ai genitori dello stesso sesso – sono il 4,2% del totale. Oggi l’accesso è forse meno complesso, ma resta, come ha detto Antonio, «una lunga ed eroica avventura».
Il carico della Pma sui padri
Se il carico fisico ed emotivo, preponderante, delle aspiranti madri è stato variamente esplorato, «esistono pochi dati e testimonianze sui padri e sull’infertilità maschile» dice Marco Cappellini, psicologo e psicoterapeuta di Cicogna Distratta, servizio di consulenza e psicoterapia per la sterilità, l’infertilità e gravidanze complesse dell’Istituto di Alta formazione e di Psicoterapia familiare di Firenze (IAF.F), e del Centro Demetra. «Per ragioni sociali e culturali, siamo ancora portati a ricondurre l’attenzione clinica all’ambito femminile. L’uomo è spesso rappresentato come il partner che affianca. Eppure, sulla base dell’esperienza, se è vero che i compagni sono meno inclini a condividere il proprio carico d’ansia, è altrettanto vero che, quando hanno l’occasione per parlare, hanno tante cose da dire». Ciò che dicono (e non dicono: abbiamo faticato a trovare una voce disposta a raccontarsi), fotografa un universo maschile in mutamento, che ancora fatica a scrollarsi dalle spalle cliché e tabù.
Come ci si sente durante un percorso di Pma
«Un senso tacito di solitudine» è ciò che ricorda Antonio di quegli anni. «Mia moglie e io eravamo circondati da amici ma, per paura che ogni tentativo finisse in nulla, abbiamo sempre tenuto tutto per noi. Siamo passati attraverso una serie interminabile di controlli ed esami, senza mai venire a capo del problema. Prima che si pensasse a indagare su di me, Sofia era già stata rivoltata come un calzino. Quando ci siamo rivolti a un andrologo, abbiamo incontrato la persona giusta: il primario di un ospedale che coordina un centro per la Pma, la prima persona che ci ha proposto un approccio pragmatico, con probabilità di successo scarse, a dire il vero. È bastato a darci entusiasmo, ma non ha spezzato quella solitudine.
Il peso della solitudine
Abbiamo sempre gestito tutto con grande intimità, io, lei e il medico, che a tratti si improvvisava psicologo. Ero io a praticarle le iniezioni, lei a subirne le conseguenze fisiche; a me spettavano “incombenze” non memorabili ma più facili, come il prelievo del seme. L’unica persona con cui parlavo era mio fratello, che aveva lo stesso problema. Tentarono anche loro e fallirono: fine delle confidenze. Eppure Sofia e io ci sentivamo affiatati nell’inseguire quel figlio. La tentazione di attribuirci reciprocamente “la colpa” dell’infertilità non ci ha mai sfiorati, forse perché non abbiamo mai capito di chi fosse il problema. Per la stessa ragione, probabilmente, il tema della vergogna, di sentirmi in qualche modo messo in discussione come uomo, non mi è mai appartenuto» racconta Antonio.
La Pma può indebolire la coppia
«Se la donna ancestralmente si confronta con la maternità, secoli di storia hanno confuso la potenza generativa maschile con la virilità» spiega Cappellini. «Questo equivoco, cascame di una società maschilista, produce spesso un senso di impotenza nell’uomo, che può vivere le visite di accertamento come una ferita all’autostima, specie quando la Pma chiama in causa la donazione di gameti. Non di rado l’infertilità porta nella coppia problemi legati alla sessualità. All’esterno i partner si mostrano forti, all’altezza delle situazioni, intimamente covano insicurezze e paure che faticano a portare allo scoperto. Si nascondono nel fare, spostano parte della tristezza sull’operatività». «La dimensione generativa è una delle funzioni principali della coppia» aggiunge Margherita Riccio, psicologa e psicoterapeuta, co-fondatrice dello IAF.F, responsabile di Cicogna Distratta e coordinatrice del gruppo di Psicologia della riproduzione SIFES-MR. «Non rappresenta necessariamente un figlio, ma qualsiasi progetto terzo. Il lutto dell’incapacità di concepire spontaneamente mette in discussione quella funzione e l’esistenza stessa della coppia: è importante adottare uno sguardo che la tenga insieme, in un momento in cui si sentono così fragili».
Quali emozioni si provano?
«Guardandomi indietro, mi chiedo, ci chiediamo, se volevamo un figlio con pari intensità» confessa Antonio. «Era lei a sentire il tic tac dell’orologio biologico; io non provavo particolari ansie o istinti paterni. Ci siamo messi insieme giovanissimi, per anni non ne abbiamo mai parlato. Poi la sua sveglia è suonata, fortissima. Mi sono detto: proviamo. Tra i due, mi sono assunto il ruolo del fatalista: se non succede, ci metteremo il cuore in pace o tentiamo l’adozione. Col tempo, quel desiderio s’è fatto prepotente anche in me, ma ho sempre faticato a tenere il suo passo». Qualche anno dopo è nata la seconda figlia: «Sono due ragazze super-volute. E io forse un padre ultra-rodato: ho cominciato a esserlo in quel momento di buio in cui ho deciso di provarci».
I nuovi papà
«L’universo della Pma è tutto uno scegliere» conferma Riccio. «Le coppie si trovano chiamate a decidere insieme, negoziare sui tempi, confrontarsi con un’enormità di sentimenti. Chi supera quei momenti ha già fatto un bel pezzo di strada. Cominciare a fare i genitori senza avere la certezza di diventarlo è il paradosso della Pma, una condizione di fragilità da tenere a mente». E proprio quella fragilità è il superpotere di chi poi diventa padre davvero, dopo aver abitato, con devozione e assiduità, il grande mistero della maternità. Sono maschi, secondo Riccio, «che hanno saputo mettersi alle spalle il cliché della virilità per abbracciare il concetto di responsabilità procreativa». Aggiunge Cappellini: «La buona notizia è che sempre più uomini sono disposti a esplorare affetti e sentimenti, senza pensare di perdere così la propria dignità. Vederli confrontarsi con la scommessa della genitorialità mi ha insegnato che un buon padre deve imparare a pensarsi fragile. È da quella porta che accediamo alla nostra parte più tenera e affettiva. Lì risiede la dimensione autentica del paterno, un’idea nuova di maschile, meno maschilista e patriarcale».