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Riccarda Zezza e la piattaforma Lifeed

«La logica ti porta da A a B, l’immaginazione ti porta dappertutto». Questa affermazione di Albert Einstein è molto cara a Riccarda Zezza, imprenditrice che con la sua azienda Lifeed ha inventato una piattaforma digitale che fa degli eventi della vita un percorso di formazione in soft skills. Lei stessa, forte dei suoi successi professionali, dimostra che «innovazione è l’attitudine mentale che ti spinge a collegare in modo nuovo le cose che ci sono già». 51 anni appena compiuti («Sono tanti, ma sto scoprendo che sono belli»), fieramente napoletana, cresciuta a Roma, laureata in Comunicazione a Siena e poi manager in Italia e all’estero, ha imparato a ricollocare con fantasioso pragmatismo i punti sul foglio della vita a causa, anzi grazie alla maternità.

Fino ad allora era filato tutto liscio?

«Nelle multinazionali in cui avevo lavorato, avevo sperimentato varie forme di “diversità”: mi ero trovata a essere l’unica donna in stanze dove erano tutti uomini o l’unica italiana in un’azienda in Finlandia; ma queste situazioni non si erano mai rivelate dei limiti. Quando ho partorito Marta, avevo 36 anni, ho scoperto che sul lavoro la maternità significava subire una battuta d’arresto. Ho poi cambiato società, lo stesso problema però si è presentato quando, 3 anni dopo, è nato Luca. Preso atto del conflitto tra dimensione privata e professionale, ho tirato le somme e ho capito che era in corso uno spreco».

In che senso?

«Le aziende mi mandavano a fare corsi in costosissime business school e mi davano il tempo per farlo. L’assenza per i figli, però, è stata considerata un problema quando invece avevo a casa un’ottima palestra: con i bambini alleni competenze che possono rivelarsi molto utili sul lavoro, dalla gestione delle emergenze alla capacità d’ascolto».

Riccarda Zezza: la maternità è un master

Si riferisce al periodo del congedo di maternità?

«Sì. Prendiamo la stessa parola congedo: suona come un addio. Ma con la maternità tu in realtà mica scompari: sei in trasferta, in missione».

Come ha reagito?

«Quando qualcosa non funziona più, penso che occorra affrontare il problema alla radice (Riccarda Zezza è anche Ashoka Fellow, parte della prestigiosa comunità internazionale di imprenditori che promuovono il cambiamento sociale a livello sistemico, ndr). All’estero avevo visto coworking con aree bimbi e ho pensato di introdurre l’idea in Italia. Ho fondato Piano C, un coworking dove poter portare anche i bambini: in spazi di questo tipo una donna non è costretta a scegliere tra figli e carriera. Piano C è diventato un polo di attrazione di queste tematiche, un luogo dove cominciare a scardinare la vecchia associazione mentale secondo cui la maternità sarebbe un problema, in particolare se hai un lavoro. Ancora oggi spesso è considerata così: quando si parla di “dare aiuti per la maternità” implicitamente si dice che bisogna intervenire come per le crisi».

In che modo va vista invece?

«Vale come un master, dal momento che sviluppa competenze che sono spendibili su più piani, anche quello lavorativo. È un investimento per il futuro (Zezza è coautrice di MaaM. La maternità è un master, pubblicato da Bur Rizzoli)».

Come possiamo usare al meglio queste competenze?

«Occorre essere consapevoli dei vari ruoli che rivestiamo nella vita e dei talenti che in ciascuno di essi sviluppiamo. Poi attivare un effetto moltiplicatore attraverso la “transilienza”, la capacità di trasferire queste competenze da un ruolo all’altro. Ed è proprio quello che consente di fare Life based learning, il metodo scientificamente validato elaborato da Lifeed: attraverso le sessioni di self coaching digitale si individuano i nostri diversi ruoli e si aprono le paratie tra di essi. Così le competenze, da quelle organizzative a quelle relazionali, fluiscono dall’uno all’altro in un circolo virtuoso. Non pensiamo solo al lavoro e alla famiglia, ci sono anche competenze creative che acquisiamo dedicandoci a hobby, sport e passioni che tornano utili in altri ambiti».

Le mamme e il senso di colpa

Come la mettiamo, però, con il senso di colpa che perseguita le donne? «Vero: quando siamo al lavoro ci sentiamo in colpa verso i figli e viceversa. Ma possiamo liberarci da questo tormento rendendoci conto che in ogni momento stiamo creando risorse – lo sviluppo di talenti, appunto – utili anche per gli altri ambiti».

Dal lavoro a casa, cosa ha portato di utile per i suoi figli?

«Non capivo, per esempio, perché come mamma non fossi efficace quando dicevo “no” e invece come manager sì. Mi sono resa conto che con i collaboratori dicevo “no” in modo rispettoso e spiegando le ragioni. Quando ho iniziato a fare lo stesso con i miei figli mi sono rasserenata, e sono diventata bravissima».

I papà possono essere coinvolti in Lifeed?

«Certo, per loro c’è un percorso diverso da quello delle mamme. La maternità è un’esperienza che attinge molto all’istinto, mentre la paternità implica una scelta precisa che la persona fa. Noi lavoriamo con i dipendenti di circa 100 aziende, in totale 40.000 utenti. Il 30% di loro sono papà e ci dicono che il percorso con Lifeed ha stimolato lo sviluppo di capacità che poi hanno trasferito sul lavoro, per esempio l’empatia e il passaggio da una leadership di comando e controllo a una che fa crescere gli altri».

Per chi non ha figli, ci sono altre esperienze che potrebbero darci una marcia in più a vari livelli?

«Direi tutte le esperienze di cura. Anche chi non ha figli ha genitori, e le ricerche dicono che un terzo degli over 50 italiani è caregiver, si occupa cioè di un anziano o comunque di un parente non autosufficiente. In pochi, però, comunicano sul luogo di lavoro di ricoprire questo ruolo nel privato, per paura che ciò possa influire negativamente sulla carriera. Noi, tramite i percorsi di Lifeed, cerchiamo di far emergere le competenze che queste persone sviluppano e di valorizzarle all’interno delle aziende. Un discorso simile si può fare anche per chi si dedica al volontariato».

Il “trucco” sta nel guardare le cose da una prospettiva diversa?

«Occorre capire che molte sensibilità e molti approcci negli ultimi anni sono profondamente cambiati, pensiamo anche alla visione del matrimonio o alla composizione della famiglia. Di conseguenza dobbiamo cambiare i paradigmi attraverso cui ci confrontiamo con la realtà»