40 anni fa finiva la guerra in Vietnam, con la conquista del Sud del Paese da parte dei Vietcong del Nord. All’epoca facevo le elementari, vedevo immagini sconvolgenti sui giornali e in tv: prima i bambini sbrindellati dalle bombe americane al napalm, poi i boatpeople che, come succede a quelli di oggi, per fuggire le persecuzioni perpetrate dal nuovo regime salpavano in mari da cui sarebbero stati inghiottiti. Non avrei mai immaginato che, un giorno, mi sarei trovata in Brianza a parlare con una testimone diretta di quella guerra ai Tropici.

 

Quando, un paio di anni fa, mi è stata presentata Ly thi Thanh Thao, ho incontrato una donna nella terza delle sue vite: è una gallerista 2.0 che divulga l’arte contemporanea attraverso la videorubrica “Praline, Prelibatezze dal mondo dell’arte” ed è vice presidente di Agora club International, un’associazione che promuove l’amicizia tra donne di tutto il mondo. Nelle sue vite precedenti ci ha portate il ricordo della primavera del 1975 e di ciò che a essa seguì. Da qui in poi non faccio commenti, annoto soltanto le parole di Thanh Thao: da sole bastano a spiegare da dove (nonostante tutto o grazie a tutto ciò che ha vissuto) nascano la sua saggezza e il suo strenuo sorriso.

 

#Dalla prima alla seconda vita

«Sono nata sul mare a Phan Thiet, in Vietnam. Cresciuta in una famiglia benestante, nel 1975 frequentavo il Couvent des Oiseaux,il liceo francese più prestigioso di Saigon. A marzo avevo compiuto 13 anni, sognavo la Francia, la Sorbona. C’era la guerra, certo, ma, ascoltando i discorsi degli adulti, non avevo paura: i Vietcong stavano scendendo a Sud, però era convinzione diffusa che non sarebbero mai arrivati a Saigon, quasi fosse un luogo invulnerabile. Per questo credo, quando  a mezzogiorno la città cadde e fu proclamata la resa, alcuni degli abitanti – ne ho visti con i miei occhi – sono letteralmente impazziti. Io, quel 30 aprile, ero in centro. Ricordo il primo carro armato dei Vietcong, l’ho visto avanzare verso il Palazzo presidenziale che di lì a poco sarebbe stato occupato… La mia, la nostra Saigon non c’era più: era diventata Ho Chi Minh City.

 

 

#La seconda vita

 Per la mia famiglia la svolta vera è arrivata il 24 giugno: mio padre, così come gli altri uomini in città, dovette presentarsi alle 9 del mattino in un centro indicato dai Vietcong. Quella sera non tornò a casa. Fu portato in un campo di rieducazione, dove rimase 3 anni e mezzo. Io e mia madre potevamo andare a trovarlo: ci facevano salire su un pullman, ci bendavano gli occhi, poi viaggiavamo per ore fino a raggiungerlo. Non so dire quanto durassero davvero quei trasferimenti al buio, sono solo certa che ogni volta attraversavamo la giungla.

 

Mentre mio padre era detenuto, a mantenerci ci pensò mia madre che, come lui, era insegnante. Poi ci si aiutava tra vicini, si condivideva il cibo. Io allora ho imparato a non confrontarmi con gli altri, non c’era occasione per provare invidia: camminavo a piedi nudi e lo stesso facevano tutti i miei amici.

 

Di amici ne ho persi molti in quegli anni. I boatpeople, che voi vedevate in tv e sui giornali, nella maggior parte dei casi non erano poveri in fuga dalla miseria, ma ricchi che potevano pagarsi il tentativo di salvarsi dalle persecuzioni del regime. Su quei barconi, finiti in fondo all’oceano, c’erano molte mie compagne di liceo che spesso, prima di morire, venivano derubate e violentate dai pirati.

 

 Quando è arrivato il momento dell’università non presentavo un buon curriculum agli occhi dei funzionari del regime: ero cattolica, nei campi di rieducazione il nonno materno era morto, il papà rimasto internato a lungo, nessuno in famiglia aveva ucciso un americano. Non potevo studiare Medicina come avrei voluto.

 

Allora decisi di fare quello che pochi facevano, visto che la lingua straniera là più apprezzata era il russo: scelsi di studiare letteratura inglese e americana. Dopo una full immersion con cui ho recuperato 5 anni di liceo, sono stata ammessa. Imparare l’inglese in un Paese comunista che aveva chiuso i confini con l’Occidente era un’impresa e non esistevano certo Internet o altri strumenti a disposizione oggi. Mi procuravo vecchie copie di Time e altre riviste americane al mercato nero del porto. Mio padre, di nascosto, mi faceva sentire stazioni radiofoniche straniere. I volumi di letteratura in università erano pochissimi, non c’era la fotocopiatrice così io e i miei compagni di corso li copiavamo, un pezzo ciascuno, a mano. Poi ci scambiavamo gli scritti.

 

Un lavoro immane, ma sono grata per aver dovuto affrontare tanta fatica: mi ha permesso di imparare, quasi senza accorgermene, un inglese non solo corretto, ma di alto livello. Nel 1986 fui l’unica dei neolaureati di quell’anno a restare come docente di Letteratura inglese all’università.

 

#Dalla seconda alla terza vita

Quando avevo poco più di 10 anni mio padre chiese a un suo collega, docente di matematica ed esperto di astrologia cinese, di predirmi il destino. Dopo complessi calcoli, lo “scienziato astrologo” disse che avrei sposato uno straniero. La dichiarazione fu accolta con divertito scetticismo e quasi archiviata in un angolo della memoria. Venne evocata, non più con scherno, ma con timore, quando i comunisti presero il potere: i miei familiari temevano che avrei sposato un soldato russo.

 

Nessuno si rendeva conto della solidità di un altro legame si stava tessendo. Dal 1974 corrispondevo, con il sistema di Pen Friend, con Sergio Mandelli, un ragazzo italiano. Oggi che ci si messaggia di continuo e in diretta da una parte all’altra del Pianeta suona bizzarro, ma allora la somma dell’inefficienza della posta vietnamita e di quella italiana faceva sì che ci scambiassimo una lettera ogni 3-4 mesi.

 

Per un paio d’anni smettemmo anche di scriverci. Poi ricominciammo e Sergio, come premio di laurea, venne a trovarmi. Non c’erano viaggi diretti dall’Italia e dovette partire da Parigi. Era il 1987. Dopo 10 giorni decidemmo di sposarci, cosa che abbiamo realizzato l’anno successivo; lasciai il Vietnam e mi trasferii in Italia. I miei furono costretti, per farmi uscire, a versare un’ingente somma: il regime mi aveva pagato come docente e anche prima, durante gli studi. Aveva investito su di me, io dovevo restituire quanto ricevuto…

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Da allora sono successe tante cose: io e Sergio abbiamo cresciuto i nostri tre figli e ci dedichiamo insieme alla divulgazione d’arte.

Il mio Paese, che porto sempre nel cuore e dove torno una volta all’anno, da anni si è aperto al rinnovamento.

 

Cosa provo per quanto è successo 40 anni fa? Nessun rimpianto né desiderio di vendetta. Ho molti amici comunisti e ammetto che il regime ha fatto anche cose buone per il Vietnam. Nessuno di noi può invertire il corso della storia, non serve fermarsi a piangere; il passato deve insegnarci la saggezza, non frenare l’azione. La vita è troppo bella per corroderla nel risentimento».