Due giorni di pausa e di riflessione – dopo vent’anni di matrimonio, due figli e l’assoluta fedeltà al marito – sono costati parecchio ad una donna di Sassari. Ha staccato la spina per 48 ore, andando via di casa per stanchezza o forse per esasperazione, nel pieno di una crisi coniugale. Quando ha deciso di tornare, pronta a riprendere il suo ruolo in famiglia, ha trovato la serratura della porta cambiata ed è stata costretta a chiedere ospitalità alla madre. Il marito si è rifiutato di darle le nuove chiavi e di concederle una chance. Non solo. Nella causa di separazione ha avuto lei la peggio, con ricadute negative anche per i figli. Il tribunale le ha addebitato la colpa della fine della relazione, per l’abbandono del tetto coniugale, seppur seguito da un ripensamento. Così ha perso l’assegno di mantenimento e l’ex abitazione comune. Inoltre non le è stato accordato alcun contributo per le necessità del ragazzo più piccolo, dato in affidamento congiunto e ora residente con lei. Il più grande, maggiorenne, è andato a vivere dalla nonna, nello stesso stabile di mamma e fratello. Non essendo autosufficiente, il padre gli passa direttamente 300 euro al mese. Per l’ex moglie, come detto, non è stato previsto nulla. La donna, per inciso, è in condizioni economiche precarie, tanto da aver ottenuto l’assistenza legale gratuita.
La Cassazione conferma: «A lei l’addebito»
Possibile? I giudici d’appello hanno confermato l’addebito e le condizioni punitive decise in primo grado. La Cassazione, con una ordinanza depositata a metà gennaio, ha avallato il tutto, respingendo il ricorso di lei. L’allontanamento della donna è stato ritenuto senza giustificazioni, senza scusanti. Lasciò la casa coniugale non per “pressioni, violenze o minacce del marito” – cosa che l’avrebbe messa dalla parte della ragione – ma per una “decisione unilaterale”. E “solo” per quella. La “fuggitiva”, riconoscono i giudici, è sempre stata fedele. Niente scappatelle, nessuna doppia vita. Non sono state trovate tracce di amanti né di relazioni clandestine. Per farla passare dalla parte del torto, oltre all’ostilità del marito, è bastato il black out di due giorni.
Che cosa prevede la legge
A spiegare che cosa prevede la legge, in generale, è l’avvocata Smeralda Cappetti, responsabile toscana di Ama (Avvocati matrimonialisti associati, attiva in rete e su Facebook). «Dal matrimonio per entrambi i coniugi nascono gli obblighi di coabitare e prestarsi reciproca assistenza materiale e morale. L’abbandono del tetto coniugale rappresenta una violazione di questi doveri, dalla quale cui potrebbero discendere responsabilità civili e penali. Se è il giudice ad autorizzare la separazione dei coniugi, dopo la prima udienza, ovviamente il discorso cambia». Dal punto di vista civile, ricorda l’esperta, «l’abbandono del tetto coniugale potrebbe portare all’addebito della separazione e, quindi, ad esempio, alla perdita del diritto di percepire l’assegno di mantenimento». Il partner che se ne va, se ci sono figli minorenni e manca il requisito della coabitazione, «rischia anche la possibilità di chiedere di essere il genitore collocatario prevalente».
Quando la fuga è un reato
«Sotto il profilo penale, invece, l’abbandono del tetto coniugale potrebbe essere perseguito con l’articolo 570 del codice penale, quello che punisce la “violazione degli obblighi di assistenza familiare”. Si procede d’ufficio in presenza di situazioni particolarmente gravi e di figli minori. Altrimenti la controparte deve presentare querela. Se si arriva ad un processo, e a una condanna, la pena base è la reclusione fino a un anno o una multa compresa tra i 103 e i 1.032 euro oppure entrambe, per le condotte più pesanti».
Quando l’abbandono è giustificato
L’abbandono del tetto coniugale può essere giustificato, e quindi senza ricadute negative per il partner che cambi indirizzo, «in tutti quei casi in cui rappresenti la conseguenza dei comportamenti gravi del coniuge, ad esempio l’infedeltà, la violenza fisica, verbale e psicologia, il venir meno dei rapporti sessuali, inconciliabili incompatibilità caratteriali». L’allontanamento da casa – in altre parole – non deve essere la causa, ma l’effetto del venir meno della comunione familiare, imputabile al partner che resta. «A decidere, valutando a quale dei due coniugi sia da imputare la frattura, resta sempre e comunque il giudice, se i coniugi si rimpallano a vicenda la colpa».
«Cercare soluzioni concordate»
«Nella maggior parte delle storie che naufragano, quando una coppia entra in crisi, la conflittualità tra i coniugi aumenta in modo esponenziale fino a rendere materialmente impossibile la coabitazione, ancor prima che siano maturati i tempi necessari per la separazione legale» prosegue l’avvocatessa. «In questi contesti è quasi inevitabile che uno dei due decida di abbandonare volontariamente la casa coniugale, in attesa di formalizzare la situazione. Nella realtà dei fatti questa scelta non è da considerarsi sbagliata a priori, soprattutto se si depongono le armi e si trovano soluzioni consensuali, anziché scegliere la via giudiziale. A volte la cessazione della coabitazione può rappresentare la scelta più saggia per consentire alla coppia di trovare una tregua e ragionare in modo più pacifico, decidendo per una riconciliazione o una separazione. Altre volte no». Se non si intravede una soluzione concordata e condivisa, e il rischio è che si inneschi una Guerra dei Roses, meglio non lasciare la casa coniugale prima di una decisione del giudice, con la dispensa formale dal dovere di coabitazione.
Nei panni della donna di Sassari
«Se io fossi nei panni della signora di Sassari – conclude l’avvocata Cappetti – non perderei le speranze e non mi arrenderei. Come reagire? Subito si può chiedere al giudice la modifica delle condizioni della separazione, poi si potrà tornare alla carica in sede di causa di divorzio. Visto l’atteggiamento del marito, una riappacificazione mi pare difficile».