Sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o OSS. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%.
Ora l’obiezione è di struttura: i nuovi dati sugli ospedali
È quanto emerge dall’indagine aggiornata “Mai Dati!”, condotta su oltre 180 strutture da Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista, resa nota con l’Associazione Luca Coscioni in occasione dei 44 anni dall’entrata in vigore della legge 194. Ad aggravare la situazione c’è il fatto che l’ultima relazione del ministero della Salute, che contiene dati chiusi e aggregati per Regione, si riferisce comunque a 3 anni fa, esattamente al 2019.
Il risultato è che di fatto l’accesso all’aborto in alcune zone è ancora una chimera. Le donne che chiedono un’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) possono sentirsi rispondere in modo negativo se capitano con un medico obiettore, ma la situazione diventa più grave se l’intera struttura ospedaliera ha il personale non disposto a praticarla. È quella che viene chiamata “obiezione di struttura“. Il report dell’Associazione Luca Coscioni di fatto conferma la fotografia già emersa in occasione dell’ultima rilevazione e che ha permesso di realizzare anche una mappa degli ospedali di fatto off limits per le donne che vogliano ricorrere all’IVG.
Aborto, un diritto sulla carta?
Il report è stato realizzato da Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e Sonia Montegiove, informatica e giornalista, che spiega: «Uno degli aspetti più gravi di non applicazione della legge 194 riguarda proprio l’obiezione di struttura, che non è legale, perché il servizio va garantito. Non tutte le donne possono scegliere dove andare, perché magari vivono in una città dove c’è un solo ospedale oppure in una regione dove c’è un unico medico non obiettore. Un servizio non dovrebbe essere applicato in modo tanto diverso e non omogeneo».
L’inchiesta parte dalla Relazione di attuazione del Ministero della salute: «Si tratta, però, di documento che contiene dati non aggiornati (risalgono al 2019). Ma soprattutto si limita ad analizzare chi chiede l’IVG su base geografica, regionale, ma non indica a quali strutture realmente ci si può rivolgere. C’è scritto, per esempio, che il record di obiettori è in Sicilia, con l’85,8%. Ma cosa significa? Se non sappiamo quanti medici ginecologi ci sono in tutto e quanti obiettori per ogni singolo ospedale, come possiamo capire dove una donna può andare?» osserva Montegiovo.
Aborto: gli ospedali obiettori
Un esempio significativo è quello del Molise. Risulta che l’82,8% dei medici è obiettore. Ma se in tutto sono 24, significa che sarebbero in 4 disposti a praticare l’IVG. «Però non è così: in tutto il Molise c’è un solo ginecologo a tempo pieno (e sta andando in pensione), più una ginecologa a tempo parziale» spiega la giornalista. Di fatto, quindi, ci sono strutture intere nelle quali non è possibile praticare l’aborto, perché il 100% del personale medico sanitario è obiettore. «Ecco perché abbiamo mandato una richiesta di accesso civico generalizzato alle singole ASL e ai presidi ospedalieri, chiedendo i numeri specifici per struttura. Chiedendo di aprire i dati, quei dati che dovrebbero essere già aperti» dice Montegiovo.
L’elenco degli ospedali no IVG
Ciò che ne è uscito è una mappa, disponibile sul sito dell’Associazione Luca Coscioni, che mostra oltre 20 ospedali in Italia dove il personale medico è tra l’80% e il 100% obiettore. Ci sono, per esempio, la Asl 1 di Cuneo, il polo ospedaliero di Desio (Monza-Brianza) e, sempre in Lombardia, gli ospedali di Tradate, Angera e Gallarate (Varese), l’ASST Papa Giovanni XXIII di Bergamo e l’ospedale di Iseo (Brescia). In Veneto il DMPO di Mestre, mentre in centro Italia l’interruzione di gravidanza di fatto risulta molto difficile da praticare all’ospedale di Viareggio in Toscana e in quello di Gubbio e Gualdo Tadino in Umbria, regione dove allo stabilimento ospedaliero di Castiglione del Lago la percentuale di obiettori è del 100%. Male anche al Polo ospedaliero di Civitanova Marche. A Roma è meglio non rivolgersi al Presidio ospedaliero Giovan Battista Grassi (ASL Roma 3, al Lido di Ostia), all’ospedale Sant’Eugenio (ASL Roma 2) o al Santa Maria Goretti di Latina. Risulta con una percentuale del 100% di obiezione, poi, il P.O. di Battipaglia, in Campania, così come il San Martino di Genova in Liguria o gli ospedali riuniti Ciriè-Lanzo in Piemonte.
La situazione non è migliore in Puglia, dove le strutture con una percentuale elevata di obiettori sulla mappa risultano almeno cinque. Qui c’è anche il caso di Foggia, dove la Asl di fatto non ha fornito i dati richiesti per evitare di identificare gli obiettori.
Perché tanti medici contro l’aborto
Oltre alle motivazioni etiche personali e dunque insindacabili, tra i motivi per i quali molti medici optano per l’obiezione ce n’è uno pratico: «Da un lato non c’è formazione durante il percorso universitario, come ci hanno raccontato diversi ginecologi, ma dall’altro ci sono ragioni concrete: i non obiettori sono pochi e spesso hanno turni massacranti, quindi la situazione non è facile. Oltre ai medici, poi, ci sono anche operatori sanitari (Oss) e anestesisti obiettori, anche se le interruzioni di gravidanza non sono praticate direttamente da solo. Insomma, tutto il contesto rende difficile l’IVG a una donna che la scelga» spiega Montegiovo, che indica due possibili strade per agevolare il percorso.
Cosa manca: telemedicina e una App
«Da un lato avrebbe senso pensare a strutture specializzate nell’IVG, dove non solo si garantisca il servizio, ma anche le tecniche siano aggiornate, perché negli anni la ricerca è andata avanti. Dall’altro occorrerebbe seguire l’esempio di altri Paesi, dove si pratica già l’IVG in telemedicina. È il caso di Danimarca e Svezia, dove era una realtà già prima della pandemia: una donna può assumere la pillola abortiva a casa, monitorata da remoto in modo da evitare rischi di ogni genere. In Inghilterra, Galles e Scozia, invece, il farmaco è consegnato a domicilio. In questo modo non è più necessario recarsi presso le strutture ospedaliere» spiega Montegiovo, che aggiunge: «Noi, intanto, stiamo pensando di realizzare un bot di Telegram dove poter fornire tutti i dati, più aggiornati possibile, sulle strutture presso le quali recarsi».