Il consultorio giusto, il medico non obiettore, un posto libero in ospedale. E tanta determinazione. Ecco tutte le condizioni che “servono” per abortire in Italia oggi. Nel 2014 hanno interrotto volontariamente la gravidanza 97.000 donne grazie alla legge 194, che da 38 anni garantisce il diritto a questa pratica. Eppure, nonostante sulla carta tutto appaia semplice, la realtà è un’altra: solo il 60% degli ospedali italiani assicura l’Ivg, l’interruzione volontaria di gravidanza, e la donna si ritrova suo malgrado protagonista di una dolorosa corsa a ostacoli nella quale anche la geografia ha un peso. Un peso determinato dalla presenza o meno, nello staff, di medici e infermieri obiettori, che nel nostro Paese sono decisamente la maggioranza: sfiorano il 70%, con picchi altissimi in Molise (93,3%), nella provincia di Bolzano (92,9%) e in Basilicata (90,2%).
Secondo i dati del ministero della Salute, quasi il 10% delle italiane non riesce ad abortire nella propria Regione. Una situazione che lo scorso aprile è costata al nostro Paese un richiamo da parte del Consiglio d’Europa per “violazione del diritto alla salute e discriminazione dei medici non obiettori” dopo una denuncia presentata dalla Cgil. Spiega Valeria Dubini, ginecologa con alle spalle 25 anni di Ivg e consigliera della Società italiana ginecologia e ostetricia: «Chi pratica aborti in ospedale spesso viene isolato dai colleghi. A volte la linea viene dettata dal primario: se è obiettore, più frequentemente sarà circondato da colleghi che rifiutano di praticare aborti. In altri casi è una scelta per facilitarsi la vita: occuparsi di Ivg non ha ricadute positive sulla carriera né dà adito a particolari riconoscimenti economici. Eppure è un lavoro prezioso, che non può essere riservato a pochi volontari».
L’Aied (l’Associazione italiana per l’educazione demografica) ha presentato diverse proposte per risolvere il problema. Tra queste: una deroga al blocco dei turnover nelle Regioni dove i servizi di Ivg sono scoperti, concorsi pubblici riservati a medici non obiettori e l’utilizzo di ginecologi a gettone dove c’è il pericolo di interruzione del servizio.
Oltre al pellegrinaggio alla ricerca di un centro vicino a casa, le donne subiscono lunghi tempi di attesa dopo il rilascio del certificato medico che attesti la gravidanza e la volontà di interromperla. «Solo 6 su 10 riescono a farlo nei 14 giorni previsti dalla legge» spiega Donatella Marazziti, psichiatra dell’università di Pisa. «È un’attesa che crea delle ferite profonde perché l’aborto può generare in molte persone uno shock post-traumatico, con tanto di flashback ricorrenti, ansie e paure».
Ma cosa deve fare una donna quando scopre di essere incinta e non può tenere il bambino? «Il primo passo è avere un certificato di interruzione di gravidanza che esprima la volontà di abortire, e che può essere compilato tanto da un consultorio quanto dal medico di famiglia» spiega Maria Gabriella Aiello, ginecologa presso il consultorio Palagi di Firenze. «Dopo bisogna andare in una struttura pubblica dove è previsto il servizio di Ivg e scegliere il percorso che si preferisce: il trattamento farmacologico, che può essere fatto entro la settima settimana, oppure quello chirurgico entro la dodicesima». Durante l’incontro preliminare vengono esplorate, secondo quanto suggerito dalla legge 194, delle alternative all’aborto: strutture che aiutano economicamente le madri in difficoltà oppure progetti che permettono di dare in adozione il bambino subito dopo il parto. Come Mamma segreta in Toscana (www.regione.to scana.it/-/progetto-mamma-segreta) e Madre segreta a Milano ([email protected]).
La difficoltà di accesso ai servizi Ivg in Italia ha un’ulteriore conseguenza: tante scelgono di andare all’estero o ricorrono agli aborti clandestini, tornati al centro del dibattito lo scorso gennaio per un decreto legislativo che punisce con multe dai 5 ai 10.000 euro le donne che vi si sottopongono. I dati più recenti fanno riferimento al 2012 e stimano da 12.000 a 15.000 “aborti nascosti”, spesso praticati dalle fasce più deboli come le immigrate o le prostitute di tratta. «Anche se non esistono più le faccendiere di un tempo» commenta la ginecologa Valeria Dubini «queste interruzioni di gravidanza clandestine continuano a essere praticate con farmaci facilmente reperibili sul web o con medicamenti tradizionali come quelli promossi nelle comunità cinesi che spesso si rivelano rischiosissimi per la salute».
Un’altra conseguenza dell’iter a ostacoli per ottenere una Ivg riguarda il “dopo”: per quanto il senso (ingiustificato) di vergogna che circonda l’aborto stia diminuendo, ancora oggi continua a essere un bivio doloroso nella vita di una donna. «Alcuni consultori offrono incontri a distanza di settimane e mesi con una psicologa» spiega la ginecologa Gabriella Aiello. Non tutti gli ospedali, però, hanno questo servizio. «E molte volte chi abortisce preferisce non parlarne più» aggiunge l’esperta. «Ma la solitudine aggrava la ferita profonda che l’interruzione porta con sé, e si può manifestare anche a distanza di anni come depressione, isolamento, paura nel costruire una nuova famiglia». Ecco la storia di 2 donne alla ricerca di un ospedale dove abortire. E dove sentirsi aiutate.
Maria T., 33 anni, di Taranto: «Sono dovuta “emigrare” dalla Puglia alla Toscana: abortire al Sud è impossibile»
Quando ho scoperto di essere incinta è stato un dramma. Non potevo tenere un figlio: ero in crisi con il mio compagno, lavoravo ogni tanto in pizzeria, a stento riuscivo a pagare l’affitto. Ho deciso di non dirlo a nessuno, mi vergognavo e non volevo essere giudicata. Non sapendo cosa fare ho cominciato a informarmi su Internet. Abortire qui al Sud si è rivelata un’impresa: ho iniziato a contattare i più importanti ospedali delle regioni vicine ma in Calabria, Basilicata e Molise è un miracolo anche soltanto parlare con il reparto di Ginecologia. Un’infermiera mi ha anche sbattuto il telefono in faccia. Poi su un forum online ho letto dell’ospedale di Careggi, a Firenze, e ho chiamato. Mi hanno spiegato cosa avrei dovuto fare, e sono partita da sola. Ho dormito la notte in macchina di fronte all’ingresso, e la mattina alle 6 mi sono messa in fila. Quando mi hanno fatto distendere sul lettino, ho pensato che finalmente era finita. In quelle 8 settimane mi sono sentita impotente, disperata, sola. Ho guidato fino a casa e non ho mai raccontato questa storia a nessuno.
Lucia S., 26 anni, di Macerata: «Il colloquio con la psicologa del consultorio? Un incubo. Sono scappata in un altro centro»
Incinta e single. Pensavo che fosse impossibile, invece era accaduto per davvero. Avevo bisogno di aiuto e ho cercato una mano in un consultorio della mia città. Mi sono trovata faccia a faccia con una psicologa che prima ha provato a farmi cambiare idea, quindi ha iniziato a domandarmi che cosa ne avrebbero pensato i miei genitori, il mio ex ragazzo, le amiche… È stato orribile: per tutto l’incontro non ha fatto altro che giudicarmi. Ho preso appuntamento in un ospedale a 2 ore da casa: lì mi hanno ascoltata e ho capito che non mi sentivo pronta a portare avanti la mia gravidanza. Sono tornata dopo 10 giorni, mi hanno fatto un’ecografia, somministrato 3 compresse della pillola abortiva e dimesso. Al terzo giorno sono tornata in ospedale per la somministrazione vaginale di prostaglandina, che provoca una sorta di mestruazione. Per tutti i successivi 10 giorni ho avuto perdite e sono stata praticamente senza mangiare, depressa, senza alzarmi dal letto. Continuo a pensare di aver fatto bene, ma lo stesso mi fa male e ancora oggi mi sento molto in colpa.