L’aborto in Italia è un tabù. Un problema negli ospedali e nelle coscienze dei medici. In questi giorni è sulle pagine dei giornali il caso di Valentina Milluzzo, incinta di due gemelli, arrivata all’Ospedale di Catania con una grave infezione. Qui, pare, non è stata aiutata ad abortire per tempo da un medico obiettore. Tragico risultato: né i bimbi né la donna si sono salvati.

L’aborto è un problema prima di tutto delle donne. Voluto o subito, sempre una ferita. A ricordarcelo è una lettrice che quest’estate ha inviato alla direttrice Annalisa Monfreda una lettera toccante. Abbiamo pubblicato la sua storia su Donna Moderna. Si è aperta una diga. Qui raccogliamo le lettere che sono seguite di altre donne che hanno vissuto l’aborto.

Ne aggiungeremo altre, se arriveranno, per creare insieme a voi uno spazio dove il dolore dell’aborto non sia un tabù.

Chi vuole raccontare la sua esperienza può scrivere a [email protected]

La lettera da cui è partito tutto 

Buongiorno Annalisa,

il 15 giugno per me è stata una data importante. Quel giorno ho praticato un aborto volontario e da allora non vivo più pensando al mio bimbo che ho rifiutato per motivi che allora mi sembravano una cosa importante. A distanza di tempo mi sono accorta che erano tutti superabili. Ma ora il mio bimbo non c’è più! Aborto, dicono, libera scelta. Lo dicono le amiche che però non sono mai disponibili quando vorrei condividere con loro il mio terribile dramma Vorrei trovare la forza per ricostruire la mia vita ma non riesco. Ho una ferita che non si rimargina più. Mi ha ferito molto l’articolo che avete scritto a giugno sulla libertà che sarebbe ridotta dalla mancanza di medici.

Vi occupate sempre di questo argomento… non c’è mai spazio per chi come noi si porta dentro un dolore una ferita insanabile e quell’articolo è un pugno nello stomaco per chi come me si trova in questa situazione, come se il nostro dolore e parlare di questo aspetto dell’aborto fosse un tabù.

Sono certa che non pubblicherà la mia lettera… scusi x lo sfogo, avevo bisogno di dire a qualcuno la mia sofferenza.

Grazie x l’ascolto. Ricordatevi che donna moderna che io adoro è acquisto sempre fatta anche da noi che soffriamo un aborto rimpiangiamo di non potere tornare indietro

Anna

La risposta della direttrice Annalisa Monfreda

Cara Anna, tu ci racconti l’altra faccia di una stessa storia: l’aborto, in Italia, è ancora un tabù. E in quanto tale, viene semplicemente respinto.

Si investe poco o nulla nell’assistenza psicologica a chi ha deciso di compiere il passo. Assistenza che permetterebbe sia di farlo in piena coscienza sia di fermarsi in tempo perché non si è convinte del tutto. Io penso che tu sia una vittima di questo tabù, tanto quanto le donne che sono costrette a emigrare per esercitare il diritto ad abortire.

Le lettere che sono seguite

Email di Barbara

Buongiorno Annalisa,

Mi chiamo Barbara e sono d’accordo sul fatto che ci sia tabù circa l’aborto… va difeso… è un diritto… ma bisogna anche parlarne. Io ho abortito a 16 settimane una bambina cercata e voluta perché incompatibile con la vita… malformazione cromosomica. Il dolore di questa scelta e le conseguenze le porto ancora ora ma comunque è purtroppo una scelta che rifarei per mia figlia. E so che questa frase suona male. Di aborto si deve parlare. Di tutte le sue sfaccettature e conseguenze. La vita va difesa, si deve aiutare una donna a diventare mamma, si possono offrire soluzioni, Ma si può anche scegliere consapevoli di pagare le conseguenze.

Ti chiedo scusa se magari la mail non è chiara… Le emozioni sono forti anche se sono passati 11 anni e ho un bimbo. 

Grazie di tutto.

Email di Gelly 

Cara Annalisa,

sento di dirle grazie per l’intelligenza e il tatto con cui ha affrontato, in queste settimane, l’argomento. Abortire non è quasi mai un capriccio né una passeggiata, che si sappia, è comunque sempre una scelta dolorosa che lascia nella coppia e nella donna tracce indelebili. Mi sono trovata due volte ad abortire mio malgrado; da credente non avrei mai contemplato di percorrere questa strada, ma sia la prima volta (trisomia 18), che la seconda (gravidanza anembrionale), mi ci sono ritrovata.

Sarebbe anche opportuno dire come negli ospedali venga trattata una donna che ricorra ad aborto terapeutico, i modi così poco accorti di molti medici, l’atteggiamento stomachevole degli obiettori, i quali,a  mio avviso, non dovrebbero esistere o addirittura essere perseguiti dalla legge. Se sceglie di fare il ginecologo, un medico, deve accettare quanto sia parte del suo lavoro quindi anche l’aborto, altrimenti cambi specializzazione. E chi cura una donna dopo? Chi fascia le ferite dell’anima?

Grazie

Lettera di “abortista pentita”

In tanti hanno da dire la loro sull’aborto, ma dovrebbe parlarne solo una donna che ci è passata, è in procinto di passarci, non vorrebbe passarci, o è serena dopo esserci passata. Gli altri, per cortesia, tacciano. Osservino un rispettoso silenzio per una scelta che non è mai comoda, facile né sbrigativa. Ma in un Paese cosiddetto civile deve rimanere una scelta. Nessuno spiega veramente come stanno le cose a una donna che ha scelto di non far nascere il suo bambino. Questo è il dramma. Quando è successo a me (e non ha senso spiegare il perché di questa mia decisione che ogni giorno mi assilla), nessuno mi ha davvero parlato. Per capire. Per aiutarmi. Per farmi cambiare idea o per non farmela cambiare. Per raccontarmi che avrei vissuto nel rimorso. Per dirmi che c’era un’alternativa, invece di farmi sentire un’appestata, per di più senza scampo.

I medici mi hanno guardata con pietà e supponenza.

Nessuna infermiera, dottoressa o impiegata si è degnata di rapportarsi a me come un essere umano bisognoso di ascolto. Avevo solo 19 anni, e quel dramma era frutto della violenza del bastardo con cui stavo. Quando gli dissi che ero incinta mi rispose: «C**** tuoi. Tu hai fatto il guaio, tu ti arrangi. Non ne voglio sapere». Mi sono sottoposta agli esami, alle analisi e alle visite da sola. Ho affrontato l’umiliazione e le domande morbose e invadenti senza nessuno al mio fianco e senza che mai si posasse su di me uno sguardo gentile. Sono passati tanti anni, ma ancora mi brucia il fatto che nessuno quel giorno mi abbia chiesto: «Come stai?». 

Email di Claudia

Gentile Redazione,

mia madre è un’abbonata di Donna Moderna sin da quando ero piccola (quindi da almeno 17 anni) e durante tutta la mia adolescenza e parte dell’età adulta ho sempre atteso la vostra rivista fatta anche per me che stavo crescendo.

Crescendo arrivano anche i primi traumi, per me una carissima amica che, rimasta incinta, ha deciso di abortire.

Mi ha fatto quindi piacere leggere Annalisa Monfreda che sostiene che l’aborto è ancora un tabù e dovremo parlarne di più. E’ vero. Mi sono trovata di fronte a pochissima conoscenza su questo argomento mentre tenevo la mano alla mia cara amica A. nel dolore (fisico) dovuto all’aborto. 

Si parla tanto di persone che si pentono di aver abortito e quando ho letto l’articolo di Annalisa mi ha fatto piacere sentire che c’erano testimonianze di donne che hanno abortito e non se ne sono pentite, come la mia amica A. 

Perchè non diamo più voce a donne che hanno scelto di abortire e non se ne pentono? Si dice che “se non volevi avere un bambino, non dovevi fare l’amore senza protezione!” ma nessuno parla di donne, a volte bambine, rimaste incinte dopo uno stupro?

Vorrei anche che affrontaste il problema dei dottori obiettori di coscienza che in Italia sono sempre di più. E vorrei che quei dottori, per quanto rispetti la loro scelta, si mettessero una mano sul cuore quando una ragazzina vittima di violenza chiede di abortire. E se quei dottori conoscessero la storia di A. vorrei che non giudicassero, ma col senno di poi, capissero che per A. abortire è stata la scelta migliore che potesse fare. 

Grazie Donna Moderna e grazie Annalisa.

email di Cristina

A 38 anni, ne ho 50 adesso, il ginecologo mi disse che già aver avuto il mio primo figlio era stato un miracolo e che avevo l’utero molto retroverso e non avrei potuto più rimanere incinta. Mazzata.

Poi dopo 4 anni mi ritrovo incinta. Scombussolo psicologico. Avevo 42 anni, ai 3 mesi lo perdo e il mio ginecologo mi fa un raschiamento. Torno a casa e alla sera grandissimi dolori e febbre a 39. Ricoverata di urgenza, quella notte stavo per morire, non sapevano cos’avessi. Dopo 12 giorni di ospedale mi comunicano che avevo presso una infezione in sala operatoria. Mi mandano a casa però sono dovuta rientrare per un rasciamento più accurato. A poche ore della mia dimissione per aborto spontaneo torno a casa. Poi di nuovo di corsa in ospedale, nuovo raschiamento. Traumatico è dire poco.

Durante il mio ricovero di 12 giorni ho vissuto due situazioni che mi hanno molto impressionato. 

La prima. Ho incontrato delle donne extracomunitarie che utilizzavano l’aborto gratuito come forma anticoncezionale, avevano fatto 6-7 aborti e avevano gia 6-7 figli di uomini diversi.

La seconda, molto più grave. Intorno alle 17 di pomeriggio ho assistito al ricovero di una signora di 45 anni, l’accompagnavano marito e figlia di 25 anni. Quando la salutano tutti e tre piangono con una disprazione inspiegabile. Poi cominciano a entrare le infermiere che le chiedono se ha fatto le terapie psicologiche e le dicono che avrebbe dovuto fare un’altra seduta con lo psicologo di ginecologia. Al rientro dalla seduta lei piangeva moltissimo, quando si calma e cominciamo a parlare mi dice che aveva fatto la amniocentesi e che il bambino aveva delle grosse malformazioni e che avevano deciso in famiglia di non tenerlo. A mezzanotte l’hanno portata, come una ladra, in sala operatoria per farle il raschiamento.

Email di Stefania

La mia è una storia di tristezza infinita. A 39 anni ho avuto la mia prima figlia, uno splendore di bambina. Desiderata da anni e nata quasi per miracolo. A 36 anni avevo subìto un intervento di rimozione di 5 fibromi, aspettando un anno un medico che lo facesse in laparoscopia per lasciare l’utero in buone condizioni. Poi si è formato un ulteriore fibroma e la mia ginecologa mi aveva dato pochissime possibilità, essendo ormai arrivata a 38 anni. A complicare ulteriormente le cose, i medicinali per il disturbo ciclotimico (bipolarismo in forma meno grave). Poi il miracolo è avvenuto e sono rimasta incinta naturalmente e, seppure con le difficoltà di dover sospendere farmaci fondamentali per il mio problema psichiatrico, ho avuto una gravidanza splendida ed è nata Cecilia.

Tre anni dopo, inaspettatamente (a 42 anni) sono rimasta incinta di nuovo e sempre naturalmente. Una gioia infinita, la bambina felice e noi altrettanto. Purtroppo a 2 mesi scopriamo che la camera gestazionale si era formata ma il bimbo si era fermato a pochi millimetri, niente battito. Aborto spontaneo. Dover spiegare ad una bimba di 3 anni che il fratellino era volato in cielo è stata la prima grande difficoltà. Dopo 4 mesi, sempre naturalmente, sono rimasta ancora incinta. Non ho detto nulla alla bambina, per fortuna, poiché anche questa gravidanza si è conclusa nello stesso modo. Tutti, nessuno escluso (anche il mio compagno), continuano a pensare che in fin dei conti una figlia la hai e non deve essere stato così traumatico. Non è vero niente. Io penso e ripenso a quei bimbi mai nati, a come sarebbero stati e al fatto che mia figlia resterà sola da grande. Ho fatto tante analisi, nessun problema genetico nell’avere ulteriori figli. Ormai gli anni sono diventati 45 e forse è troppo tardi, ma io non smetto di sperare. Il mio compagno non lo sa e non crede sarebbe più il caso.

Giusto o sbagliato il mio desiderio di maternità continua a tormentarmi. E’ come se rivendicassi un qualcosa che mi è stato tolto contro la mia volontà.

Non giudico chi interrompe le gravidanze volutamente, mentre trovo bestiale lasciare bimbi nei cassonetti. Ammiro infinitamente chi, pur non potendo tenere un figlio, porta a termine la gravidanza e lascia il bimbo in ospedale per l’adozione.

Un abbraccio a tutte le donne che hanno vissuto queste terribili esperienze per qualsiasi motivo.