La legge sull’aborto ha 44 anni ma è rimasta in larga parte inapplicata: è la denuncia di Anna Pompili, ginecologa e fondatrice dell’Associazione AMICA (Associazione Medici italiani per la Contraccezione e l’Aborto): «Di fronte alle crescenti difficoltà di accesso all’aborto, alcune donne si sono viste costrette a portare avanti gravidanze indesiderate, con grandi rischi per la loro salute e problemi per i loro figli non desiderati».
Dove e perché può essere difficile l’aborto
«Interrompere una gravidanza oggi non è impossibile, ma è sicuramente difficile, soprattutto in alcune aree del Paese» spiega Pompili, che è anche nel consiglio dell’Associazione Luca Coscioni. Il riferimento è a intere Regioni, come le Marche, ma anche il Molise, per la mancanza di strutture alle quali rivolgersi o per la presenza significativa di medici obiettori di coscienza. L’aborto farmacologico in consultorio, infatti, è possibile solo entro la 7° settimana (in ospedale entro la 9°), «ma nella realtà accade che, anche se una donna si presenta in ambulatorio entro la settima settimana, poi venga rimandata a casa, per motivi burocratici o in attesa di un certificato che non sempre è effettuato con procedura d’urgenza: si finisce col perdere tempo, superando i limiti previsti» chiarisce Pompili.
Come spiega l’esperta, infatti, a un anno e mezzo dalla circolare del ministero della Salute che esortava a mettere a punto protocolli per l’aborto farmacologico, pochissime regioni hanno provveduto: «L’unica che lo ha fatto è la Regione Lazio. In Toscana, invece, le linee guida si basano su un percorso misto ambulatoriale e ospedaliero, che comunque significa dover tornare in ospedale anche 2, 3 o 4 volte prima di procedere. È un paradosso – prosegue la ginecologa – se pensiamo che arriviamo da due anni di emergenza Covid nella quale si è cercato di ridurre gli accessi in ospedale».
Cosa succede se un medico è contrario all’aborto
Le conseguenze di questa situazione sono molte, a partire dalla «negazione di un diritto, ossia quello della donna ad autodeterminarsi, cioè a decidere della propria vita. A ciò si aggiunga il fatto che la mancanza di strutture o di personale disposto a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG) costringe molte donne a spostarsi, cambiando regione. Ma non tutte possono farlo e durante il lockdown, con le limitazioni ai movimenti, questo spesso non è stato proprio possibile – spiega Pompili – Per non parlare delle possibili complicazioni in caso di IVG: tanto più la gravidanza va avanti, quanto più aumentano i rischi da un punto di vista sanitario».
Più maternità indesiderate e meno aborti
Un’altra conseguenza è l’aumento di maternità indesiderate: «Nell’impossibilità di avere una IVG molte donne si sono arrese passivamente a una gravidanza che non volevano, dando alla luce un figlio non desiderato. Non serve scomodare i numerosi studi a riguardo per ricordare che un bambino non voluto ha spesso problemi, perché non è accolto nel migliore dei modi» afferma Pompili. Intanto dai dati ufficiali del ministero della Salute sull’attuazione della legge 194 (fino al2017) emerge un netto calo nel ricorso all’aborto: nel 2016 le IVG sono state 84.926, ossia meno della metà rispetto alle 234.801 del 1982 (anno record di aborti in Italia). Negli ultimi 40 anni la riduzione è stata del 74.7%, soprattutto tra le minorenni e proprio le under 18 italiane sono quelle che interrompono meno la gravidanza rispetto alle coetanee europee. In compenso il 70% dei medici in Italia è obiettore, con punte maggiori in Basilicata. Il confronto con l’Europa la dice lunga: in Gran Bretagna gli obiettori sono il 10%, in Francia il 7%, in Germania il 6% e in Svezia addirittura risultano nulli.
La piaga degli aborti clandestini
«È difficile avere dati sul cosiddetto “aborto clandestino”, anche se oggi – con l’interruzione farmacologica – sarebbe più corretto parlare di procedure al di fuori della legge. Dal 2005, cioè da quando è disponibile la pillola abortiva, il fenomeno è più nascosto. Sta di fatto che intere etnie sono come sparite dai nostri ambulatori: ad esempio, fino a qualche tempo fa le donne nigeriane che abortivano erano moltissime, mentre oggi se ne vedono poche. Che fine hanno fatto? Il dubbio è lecito: o tutte fanno ricorso alla contraccezione, oppure si rivolgono a canali “non ufficiali”, con meno burocrazia e qualcuno disposto ad aiutarle a interrompere le gravidanze» spiega la ginecologa di AMICA.
Perché servirebbe modificare la legge
«Dopo 44 anni sarebbe il caso di rimettere mano alla legge, introducendo dei correttivi» esorta Pompili, che cita un primo punto debole della 194: «Prendiamo ad esempio l’aborto terapeutico, cioè con intervento chirurgico: la legge lo consente solo entro la 22esima settimana (90 giorni) e in particolari casi» ricorda Pompili, cioè in presenza di patologie gravi come malformazioni o malattie del nascituro, “che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna”. «Ma non si tiene conto del fatto che potrebbe esserci una diagnosi tardiva di patologia fetale. Il risultato è che molte donne finiscono con l’andare all’estero, dove si pratica il “feticidio”: è un termine orribile, è vero, per indicare la soppressione in utero del feto, che dunque non nasce. In Italia l’articolo 7 della 194 lo impedisce» dice l’esperta, che aggiunge: «Anche il limite dei 90 giorni non ha ragioni mediche: per esempio, in Inghilterra l’Abortion Act del 1967 prevede che si possa procedere con l’aborto terapeutico anche quando si raggiunge un grado di maturità del feto tale da permettere la vita al di fuori dell’utero. Non si indica un numero preciso di giorni, ma si prevede che la valutazione sia affidata a un comitato di medici esperti».
Infine c’è un aspetto che riguarda i diritti delle donne a decidere per se stesse: «Tutte queste limitazioni di fatto non permettono l’autodeterminazione: il fatto stesso che la legge preveda un periodo di riflessione di 7 giorni tra la domanda di IVG di una donna a quando il medico prende in carico la procedura è ritenuto dalla stessa Organizzazione mondiale della Sanità un ostacolo all’accesso all’aborto, inutile e potenzialmente dannoso per la salute di una donna stessa. Quando una donna decide di abortire è perché lo ha già deciso. In qualche caso può esserci un’incertezza, ma noi medici lo capiamo e allora possiamo anche chiedere una consulenza psicologica, ma allora potranno servire anche più di 7 giorni. Il punto è che le donne sono considerate cittadine di serie B, le cui decisioni sono in qualche modo ritardate da burocrazia o articoli di una legge fortemente ideologica» conclude Pompili.