Anne è una brillante studentessa universitaria e ha un grande sogno: diventare scrittrice. Quando rimane incinta la sua vita, all’improvviso, diventa una corsa contro il tempo per evitare che quell’evento possa decidere il futuro al posto suo. Succede in L’évenement, evento in francese, così si intitola il film di Audrey Diwan, premiato con il Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia.
Ora nelle sale italiane con il titolo La scelta di Anne, racconta come un thriller la storia di un aborto clandestino nella Francia del 1963, dove l’interruzione di gravidanza viene punita con il carcere o addirittra la condanna a morte. Anne si ritrova sola, giudicata dalle amiche ma anche consapevole che il figlio del piacere di una sera, strappato ai tabù sessuali dell’epoca, è «l’errore che porta le donne a essere solo madri e casalinghe».
Lei non desidera questo per sé, il suo futuro vuole deciderlo, ma più passano le settimane più diventa difficile abortire senza rischiare la vita, oltre che un processo. Seguendola col batticuore alla ricerca di una via d’uscita, ci ritroviamo non solo a riflettere su com’era la vita delle donne prima che fosse sancito per legge il loro diritto di scelta – in Francia nel 1975, in Italia nel 1978 con la legge 194, difesa poi al referendum del 1981 – ma anche a chiederci se oggi, dopo oltre 40 anni, quel diritto sia pienamente rispettato. Se le ragazze si sentano davvero libere di decidere del proprio corpo e del proprio destino, di compiere una scelta per cui le loro nonne e le loro madri hanno lottato.
«Scoprire di essere incinta è stato un fulmine a ciel sereno» confida Daniela, 25 anni, di Bologna, che ha interrotto la gravidanza a settembre. «Ho sempre considerato l’aborto un diritto, e mia mamma mi ha sempre parlato del referendum come di una conquista, ma ammetto che non ho mai pensato di potermi trovare io nella situazione di dover prendere questa decisione. Usavo la pillola, però per un paio di mesi l’ho sospesa per capire se l’emicrania di cui soffro fosse un effetto collaterale. Utilizzavo altri contraccettivi, ma qualcosa non ha funzionato. Quando ho fatto il test, ero alla quarta settimana».
Daniela è quasi coetanea della Anne del film e, come lei, ha scelto di abortire pensando al futuro. Personale e sentimentale. «Io e il mio fidanzato Matteo, con il quale convivo da qualche mese, siamo andati in crisi all’inizio. Eravamo divisi tra il nostro desiderio di creare una famiglia, perché un figlio lo volevamo e lo vogliamo ancora, e la consapevolezza che non è questo il momento giusto».
È stato doloroso scegliere di abortire per una “questione di tempi”
Daniela parla con lucida sincerità. «Mi sono laureata da poco in Lettere, ma lavoro con partita Iva già da qualche anno come formatrice di insegnanti. Collaboro con una società che ora potrebbe assumermi a tempo indeterminato e anche mandarmi in trasferta all’estero, cosa che mi piacerebbe moltissimo. Con un bambino avrei dovuto mettere tutto in pausa per 2 anni, rinunciando a un lavoro fisso e rischiando anche di rovinare il rapporto con Matteo in un momento in cui la convivenza è in fase di assestamento. Ho visto una carissima amica andare in crisi nera quando è diventata mamma: sono state proprio le rinunce e le frustrazioni a incrinare la sua coppia, che pure sembrava destinata a durare per sempre. Ho sempre considerato la maternità come un momento magico: il momento in cui si decide di avere un bambino, l’attesa del risultato del test, l’emozione del pancione che cresce… Per questo è stato doloroso scegliere di abortire per una “questione di tempi”. Ma trovo sacrosanto poter decidere quando e come diventare genitori, proprio per accogliere un figlio nel migliore dei modi. Ne ho parlato tranquillamente con il mio fidanzato e i miei genitori, e non ho avuto dubbi. Neppure ho incontrato ostacoli, forse perché, da quanto ne so, in Emilia Romagna l’iter è più fluido che altrove. Ho chiesto e ricevuto il certificato per l’interruzione di gravidanza durante il primo incontro con la ginecologa. E ho scelto la pillola Ru486 per evitare l’anestesia».
«Io e il mio fidanzato eravamo divisi tra il desiderio di creare una famiglia e la consapevolezza che non è questo il momento giusto»
Oggi, 2 mesi dopo, Daniela è serena. La sua storia è l’esempio di come essere favorevoli all’aborto non significhi essere contrari alla vita, ma garantire a una donna la libertà di scelta. Eppure lei stessa ci ha chiesto di usare un nome di fantasia per mantenere l’anonimato. Ed è stata l’unica, tra le tante ragazze che abbiamo contattato, a voler raccontare la sua esperienza.
L’obiezione di coscienza
Nonostante i 43 anni trascorsi dalla legge, l’interruzione di gravidanza è spesso ancora vissuta come una vergogna da nascondere. E le istituzioni non aiutano a sciogliere i nodi. Se è vero che gli aborti sono calati del 70% rispetto al 1983, grazie alla contraccezione e alla pillola del giorno dopo, a marzo il Consiglio d’Europa ha ribadito che in Italia il personale è insufficiente a garantire il servizio, i medici obiettori sono il 70% e il 5% delle donne deve rivolgersi a una Regione diversa dalla propria.
«Trovo sacrosanto poter decidere quando e come diventare genitori, proprio per accogliere un figlio nel modo migliore»
«Sto aiutando ad andare in Emilia Romagna o in Toscana una ragazza che non ha la possibilità di abortire a Reggio Calabria a causa dell’altissima percentuale di obiezione di coscienza» racconta Alice Merlo, 28enne genovese che, dopo aver abortito, ha deciso di impegnarsi per aumentare la consapevolezza delle donne: è diventata testimonial della campagna per l’aborto farmacologico appoggiata dall’UAAR, Unione Atei Agnostici Razionalisti, e accompagna nell’iter altre donne che aderiscono al servizio di “IVG-Ho abortito e sto benissimo”.
«Rispondo a richieste di informazioni di ogni tipo: molte non sanno che l’iter è gratuito, per esempio, o che differenza c’è tra l’intervento e la pillola. Altre semplicemente non conoscono i loro diritti, non hanno una ginecologa di fiducia e i siti istituzionali non informano con chiarezza. Così ho fatto da “avvocato” per molte di loro, parlando con ginecologhe che, alla prima visita, non volevano rilasciare il certificato per l’Ivg dicendo che è richiesta una settimana di riflessione: una bugia, perché per legge i 7 giorni devono passare solo dall’ottenimento del certificato all’intervento. Tante mi hanno perfino confessato di sentirsi in colpa perché non provano sensi di colpa. Ogni tanto penso alla mia bisnonna: si era sposata giovanissima e dopo i primi 3 figli, non avendo contraccettivi, aveva abortito più volte clandestinamente. Lei aveva accolto la legge 194 come una grande conquista. E oggi sarebbe fiera del mio attivismo».
In Italia ci sono sempre meno aborti
L’Italia è uno dei Paesi a livello mondiale dove si ricorre meno all’aborto. Secondo gli ultimi dati definitivi del ministero della Salute, le interruzioni volontarie di gravidanza sono state 73.207 nel 2019. E le cifre provvisorie per il 2020 si fermano a 67.638, con un calo del 7,6% rispetto all’anno precedente e di oltre il 70% rispetto alle 235.00 del 1983, anno con il numero più alto di Ivg. Ad abortire sono soprattutto le donne tra i 25 e i 34 anni, mentre diminuiscono le giovanissime. Il servizio, però non è garantito, ovunque a causa dell’obiezione di coscienza del 70% dei medici. Secondo la ricerca Legge 194. Mai dati, svolta dalla docente di Storia della Medicina Chiara Lalli per l’associazione Luca Coscioni, sono oltre 20 gli ospedali italiani dove il 100% dei ginecologi è obiettore (www.associazionelucacoscioni.it). Per aiutare le donne nell’iter è nata la comunità “Igv – Ho abortito e sto benissimo” (contatti sulla pagina Facebook).