Tratto dal libro di R. J. Palacio, è arrivato per le feste nelle sale italiane Wonder, un film che racconta la storia di un bambino affetto da una grave deformità craniofacciale. Auggie affronta l’esperienza della scuola media dopo essere stato allievo della madre, in casa, tra l’uno e l’altro dei tanti interventi chirurgici che ha dovuto subire. È arrivato il momento del doloroso confronto con i suoi coetanei, il momento di togliere il casco da astronauta che ha sempre indossato in pubblico. Wonder è il film giusto per spettatori della stessa fascia di età del protagonista e per i loro genitori, è educativo nel senso dell’accettazione del diverso e lo è con una leggerezza gradevole, che spesso sa strappare un sorriso a chi lo guarda. Anche molte lacrime, inevitabilmente.
I coetanei vedono la sua deformità, non la sindrome di cui soffre
Il film e il libro offrono uno spunto di riflessione importante a una società molto orientata alla perfezione del corpo intesa come valore. E come prerequisito irrinunciabile per potersi affermare in quanto individui. La scelta coraggiosa è di proporre ai lettori e agli spettatori non una disabilità qualsiasi, ma una disabilità estetica, forse la più difficile da accettare oggi. Siamo pronti ad accogliere più facilmente l’idea della malattia che quella della bruttezza. Nel caso di Auggie le due coincidono, ma è solo la deformità del volto che gli altri vedono in lui, non la sindrome di Treacher-Collins di cui soffre. Con le dovute eccezioni nemmeno il più terribile dei ragazzini se la prenderebbe con un compagno di scuola su una sedia a rotelle, ma la gran parte degli adolescenti è spietata con i coetanei dall’aspetto anche poco al di fuori dalla norma. A volte basta un dettaglio, un naso dalla forma particolare, delle sopracciglia più folte, per essere etichettati. Ma in fondo anche tra adulti è così, siamo noi che trasmettiamo i modelli di riferimento ai figli. Nel nostro sistema di regole politicamente corretto nessuno si sogna di additare una inabilità psico-motoria, ma se qualcuno è brutto si può dire. E si dice, soprattutto se quel qualcuno è donna. Le donne hanno il dovere della bellezza (oltre a molti altri). Delle sindache non si valuta solo la capacità o incapacità di amministrare, ma anche la dimensione delle orecchie e la loro aderenza al cranio.
Auggie è il sole, la sorella e i genitori i pianeti orbitanti
Wonder solleva quindi un tema scomodo, di cui troppo poco si parla, e ci interroga sul nostro grado di accettazione del diversamente bello o di ciò che a prima vista percepiamo come mostruoso. Potremmo ricordare, sullo stesso argomento grandi pellicole del passato, Frankenstein e The Elephant Man tra tutte. Wonder ha anche il merito di mostrare attraverso il punto di vista di Olivia, la sorella di Auggie, cosa può accadere nella famiglia di una persona portatrice di una disabilità. Olivia, detta Via, usa un’immagine efficace: Auggie è il sole, lei e gli stessi genitori i pianeti orbitanti. Il “malato” diventa il centro, tutto il resto gli ruota intorno. Le attenzioni di mamma e papà Pullman sono dirette al figlio minore, Via resta un po’ ai margini, quasi a scontare la sua sana normalità come fosse una colpa. Così è costretta a crescere prima del tempo, a raggiungere una precoce autonomia nella sua orbita esistenziale. Ma diventare adulti troppo presto non è indolore, lascia segni. Momenti in cui ci si sente trascurati, in cui si avrebbe bisogno anche soltanto di uno sguardo che invece è immancabilmente rivolto a un altro, sempre lo stesso fratello diverso, in difficoltà. Un fratello amatissimo, ma a volte può essere lecito pentirsi di averlo tanto desiderato. La vita della madre interpretata da una convincente Julia Roberts è dedicata al figlio, per lui ha rinunciato a completare gli studi, per lui ha sacrificato passioni, sogni. È stata per anni anche la sua insegnante, persino più metodica ed esigente di quelli che poi Auggie trova a scuola.
A soli 11 anni sa che dovrà prendere la sua strada, senza sconti
Per quanto un po’ edulcorate, il film ci restituisce le dinamiche che si instaurano intorno al componente più debole di un nucleo familiare. Ci fa intuire come la condizione di fragilità possa diventare il buco nero che tutto risucchia al suo interno. Ma qui poi c’è il lieto fine catartico che forse è anche adeguato alla fascia di età del pubblico. Nella realtà la standing ovation è molto meno probabile. Comunque nella scena della premiazione finale non c’è solo la gioia di Auggie tra la commozione di tutti, c’è pure la stanchezza di un bambino che cresce portando sulle spalle la croce della propria condizione particolare. Auggie è felice, guarda gli altri che lo guardano e lo applaudono, ma la sua esultanza è contenuta. È fermo, non saltella, gli manca l’urlo liberatorio. Forse sente ancora la fatica del cammino compiuto fin là, il dolore e la vergogna, lo sforzo di farsi accettare nel mondo dei belli, il lavoro quotidiano per difendere la sua dignità. E a soli 11 anni sa che da domani dovrà riprendere la strada, senza sconti, una strada difficile per tutti e per lui molto di più. Auggie sale sulla montagna con una palla al piede a frenargli il passo.
Donatella Di Pietrantonio è l’autrice de “L’Arminuta”, il romanzo con cui ha vinto il Premio Campiello