Cosa succede quando due emergenze, entrambe irrisolte, si sommano?
Lo stiamo vedendo in queste ore. L’immigrazione e il Covid. Due enormi sfide che arrivano via mare, a bordo di imbarcazioni mal equipaggiate.
A distruggere i piani di un pezzo d’Italia che nella timida ripresa del turismo aveva fatto affidamento per uscire dalla crisi economica. E forse è proprio per non scoraggiare i vacanzieri che ne sentiamo parlare meno di un anno fa, quando gli sbarchi erano appena un terzo degli attuali: sindaci e governatori tendono a lavare i panni sporchi in casa, a non sollevare polveroni, a non dipingere il quadro di un’invasione come hanno fatto in passato.
L’invasione non c’è neppure adesso, ma molti degli immigrati risultano positivi al coronavirus, com’è normale che sia. E la sfida dell’accoglienza diventa anche sanitaria. Non ci si può più permettere di ammassare i richiedenti asilo nei Cpr per mesi, in condizioni squallide. Un modello di accoglienza che era già fallimentare è oggi sanitariamente rischioso per l’intero Paese.
Di questo bisognerebbe parlare. Non delle (poche) scene di intolleranza, che invece occupano i titoli dei giornali. Dopo quello che abbiamo vissuto negli ultimi mesi, niente è più lo stesso. L’essere stati aiutati, con una professionalità e una partecipazione sorprendenti, da Paesi che abbiamo sempre guardato con superiorità: da Cuba alla Polonia, dalla Romania all’Ucraina. L’aver indossato i panni degli appestati, di quelli a cui era vietato varcare le frontiere. E, per alcuni di noi, vestirli ancora, non appena un accento un po’ troppo “del Nord” si ode spuntare sotto un’ombrellone. L’aver dovuto fare a meno di colf e baby sitter, arrivate in Italia da Paesi lontani, il cui aiuto abbiamo sempre dato per scontato, finché non ci è venuto a mancare improvvisamente…
No, il virus non è una livella. Non ci ha messo tutti nelle stesse condizioni. Anzi, ci ha mostrato una volta di più quanto essere nati nella metà giusta del mondo e avere un certo status sociale conti. Però ci ha fatto sentire insicuri come mai prima, ci ha fatto sperimentare la claustrofobia, ci ha fatto provare la gratitudine verso qualsiasi gesto amico, ci ha fatto sentire il bisogno dell’altro. Ha amplificato il suono di corde che avevamo dentro, ma vibravano troppo fievoli rispetto alle mille sollecitazioni quotidiane.
Adesso cerchiamo di non dimenticare quei suoni, di lasciarli vibrare ancora di fronte ai barconi carichi di speranza che approdano sulle nostre coste. L’immigrazione è una sfida che un grande Paese come l’Italia può e deve affrontare. Garantendo la dignità di tutti.