Pochi casi in altrettanti giorni hanno riportato all’attenzione il fenomeno delle cosiddette sfide degli adolescenti, pronti a lanciarsi in cosiddetti challenge che possono mettere a serio rischio la loro vita e che infatti in almeno due casi a Milano sono finite con la morte di due ragazzi. Un 14enne è rimasto vittima del Blackout game, dopo essersi avvolto la testa in un cellophane per comprimere la carotide, perdere i sensi e provare l’ebbrezza del risveglio, che in questo caso però non c’è stato. Un 15enne, invece, dopo aver eluso i controlli della sicurezza, è salito con alcuni amici sul tetto di un centro commerciale per poi scattarsi un selfie nel punto più alto dell’edificio. Scoperto dai vigilantes, però, nella fuga è precipitato in una condotta dell’aerazione, morendo poi in ospedale per la gravità delle ferite riportate.
Ma cosa spinge gli adolescenti a sfidare la morte o a esporti a comportamenti così a rischio? “Questo tipo di comportamento si può manifestare in molte forme: lo ritroviamo, ad esempio, anche nel parkour o nei casi, che hanno fatto discutere mesi fa, della cosiddetta Blue Whale, la Balena Blu (un “gioco”, che dilagava sui social e in particolare su Facebook, nel quale i ragazzi si sarebbero sfidati fino al suicidio, NdR). Fortunatamente non riguarda la maggior parte degli adolescenti, ma soltanto quelli più fragili, nei quali spesso è in atto una forma di patologia, magari in modo latente” spiega a Donna Moderna la psichiatra e psicoterapeuta Maria Sneider, autrice insieme a Cecilia Di Agostino e Marzia Fabi del libro Depressione. Quando non è solo tristezza (L’Asino d’oro edizioni).
Gli adolescenti, la morte e il senso di onnipotenza
“Negli adolescenti è frequente trovare forme di sfide alla morte: sia da va coloro che sfrecciano a tutta velocità in auto a quelli che fanno parkour” spiega Sneider, riferendosi alla pratica di saltare da un tetto all’altro di palazzi nelle città o esibirsi in acrobazie al limite. Un fenomeno nato in Francia negli anni ’90 e poi cresciuto nel tempo fino a quando, nell’estate del 2017, l’Inghilterra ha riconosciuto – primo Paese al mondo a farlo – il parkour come disciplina sportiva, scatenando polemiche per il rischio di mettere in pericolo la propria vita.
“Per i giovani è tipico sfidarsi, dunque, ma chi è sano di mente sa anche quando raggiunge il limite e deve fermarsi. Negli altri casi, invece, non si riesce a porre un freno: si può essere in presenza di una patologia, che può manifestarsi come forma depressiva o un senso di onnipotenza. Nel primo caso può anche essere che il ragazzo non abbia dato segnali preoccupanti o evidenti in passato, ma che soffra di una certa fragilità. Nel secondo spesso si tratta di giovani anche ben integrati, ma che credono di poter sfidare la morte, vincendola, anche perché in adolescenza capita che la morte sia mitizzata” spiega l’esperta.
Casi in crescita?
“Io ritengo che siano casi molto rari rispetto alla maggioranza degli adolescenti, nonostante fin dalla pubertà in molti si sentano già grandi e in qualche modo in competizione con gli adulti” dice Sneider. “Vanno comunque seguiti, perché alla base dei loro comportamenti non ci sono motivazioni organiche, ma disagi che possono e devono essere affrontati, possibilmente per tempo” – spiega la psicoterapeuta. “Si può trattare di giovani che soffrono di malattie mentali che, come tali, possono essere curate e guarite. Ad esempio nel caso dell’onnipotenza, se si perde il rapporto con la realtà, si può essere in presenza di una forma di psicosi, che può essere seguita e curata” conclude l’esperta, aggiungendo: “Occorrerebbe evitare gli effetti di emulazione, evitare cioè di dare troppa enfasi a casi del genere”.
Ma cosa scatta nella mente di un adolescente?
Esiste anche una scuola di pensiero che attribuisce maggiore responsabilità alle cause fisiologiche che determinerebbero il comportamento degli adolescenti. Si tratta del “filone organicistico” della psicoterapia. Daniel J. Siegel, professore di psichiatria alla University of California di Los Angeles (UCLA) e autore di La mente adolescente (Cortina Raffaello), spiega come il cervello da un punta di vista fisico cambi la propria struttura durante l’adolescenza, abbandonando certe caratteristiche per creare nuove “connessioni”. Questo spiegherebbe molti dei comportamenti tipici di questa età, compresi quelli aggressivi, incoscienti, dissoluti o provocatori. Nel caso specifico, a gestire alcune reazioni, come la rabbia e la paura, è una parte specifica del cervello, l’amigdala. Ad esempio, se un adulto viene guardato negli occhi, questo comportamento può essere visto come neutro (così come per un bambino): in un adolescente invece può essere percepito come minaccioso o persino “nemico”.
Un altro aspetto da non sottovalutare è la produzione di dopamina. Il cervello nell’adolescenza presenta un livello medio di produzione di questo ormone, responsabile del senso di soddisfazione e gratificazione, inferiore a quello di bambini e adulti. È ciò che viene a volte chiamato “droga naturale”. Normalmente viene prodotta quando ci si dedica ad attività che danno senso di benessere (come sport o cibo, divertimento, compagnia, ecc). Il suo livello inferiore è una delle cause di quel senso di “noia” di cui soffrirebbero maggiormente i teenager. Per compensare una minor produzione, gli adolescenti sarebbero spinti a comportamenti a rischio, che diano gratificazioni: dal ricorso alle droghe al bisogno di “brivido”.
“Del funzionamento del cervello conosciamo ancora una piccola parte, ma gli studi sono sempre più approfonditi. Quello che si è scoperto finora porta a dire che sicuramente la dopamina è coinvolta, così come le sinapsi, che tendono a formarsi definitivamente intorno ai 20/25 anni, quindi gli adolescenti non hanno ancora la funzionamento cerebrale di adulto. Questo fa sì che il giovane abbia l’incapacità di capire quali saranno le conseguenze dei propri gesti, quindi tende a non sapere come comportarsi per evitare quelli a rischio” spiega a Donna moderna Emanuele Lucchetti, psicoterapeuta presso il Centro Leonardo di Genova, specializzato in disturbi dello sviluppo.
“Il Blackout game non è una novità assoluta: proprio in provincia di Milano qualche anno fa era successo che alcuni liceali si ‘strozzavano’ l’un l’altro per provare la stessa sensazione. Questo anche perché gli adolescenti sono più soggetti alle conseguenze delle dipendenze, dalla nicotina all’alcol alle droghe: gli effetti vengono percepiti dal ragazzo in modo maggiore sia in termini di intensità che di durata nei giorni successivi. Ad esempio, se un adulto li smaltisce in 24 ore, in un ragazzo possono durare molti più giorni” spiega l’esperto, che aggiunge: “E’ chiaro, quindi, che l’adolescente tende a voler provare esperienze forti, a provarne piacere, è più soggetto alle conseguenze e incapace di prevederne le conseguenze, con un effetto finale che lo porta a vivere situazioni pericolose”.
“A livello sociale, poi, si aggiunge una sorta di abbandono dei valori familiari per trovarne di propri, che l’adolescente cerca inevitabilmente nel gruppo dei pari” conclude Lucchetti.
I consigli per i genitori
Ad occuparsi del fenomeno è anche Ivano Zoppi, Presidente di Pepita Onlus, che spiega: “I nostri ragazzi cercano la botta di adrenalina e noi non possiamo stigmatizzare il gesto, considerandolo fuori dagli schemi. Leggiamo il disagio tra le righe, senza avere il timore di parlare di argomenti forti con i ragazzi. Apriamo con loro il dialogo e rispettiamo i loro spazi, ma soprattutto, basta dire “non so, non sapevo, non conosco”. Dobbiamo essere presenti nei momenti della loro vita in cui l’asticella viene spostata troppo avanti”.
Come aiutare i ragazzi? Ecco qualche consiglio:
- Avviare il dialogo quando i bambini sono molto piccoli, mettendo al centro l’importanza del gioco come strumento di relazione;
- Capire momenti giusti e rispettare gli spazi dei figli adolescenti, tenendo questo dialogo attivo;
- Osservare a distanza comportamenti anomali e sofferenze: quando i ragazzi si chiudono in camera troppo a lungo, non escono con gli amici, cambiano umore;
- Vigilare sui loro profili social e con loro concordare tempi e modi di utilizzo, stabilendo insieme regole, ricordando loro che sono i genitori gli intestatari del contratto e i proprietari dello smartphone e l’utilizzo da parte loro è una concessione (da parte dei genitori);
- Aprire la propria casa ai loro amici per parlare insieme attorno a un tavolo e comunicare stabilità e fiducia;
- Cercare l’alleanza educativa con docenti a scuola, condividendo la responsabilità educativa senza demandarla, a vantaggio dei figli, che altrimenti giocheranno sulla distanza tra le parti per evitare il dialogo.
Leggi anche: