Un ragazzino biondo che si arrampica tra le rocce, gli occhi che brillano, il sorriso pieno. Tutti abbiamo visto queste immagini di Igor Maj, il 14enne milanese morto con ogni probabilità in seguito al gioco in Rete “Blackout game”. Con quella stessa corda che usava in montagna Igor si è tolto la vita nella sua stanza.
È invece caduto dal tetto di un centro commerciale a Sesto San Giovanni (Mi) Andrea Barone, 15 anni e una passione per il calcio: con gli amici voleva forse scattarsi un “selfie da paura” a 40 metri d’altezza da pubblicare sui social (come sembra avesse già fatto in passato). Ma è precipitato nel vuoto, in una condotta di areazione non chiusa da una grata. Davanti a tali tragedie, i genitori si sentono impotenti. E si domandano cosa si nasconda nel web e come comportarsi.
Cos’è il Blackout game?
«Si chiama anche “choking game” (dall’inglese to choke, soffocare, ndr) e spinge a privarsi dell’ossigeno fino allo svenimento» spiega Giovanni Ziccardi, docente di Informatica giuridica all’università degli Studi di Milano. «Non è una novità assoluta: da una decina d’anni su YouTube circolano inquietanti tutorial con sfide di vario genere, dal bere più alcol possibile allo sdraiarsi sulle rotaie. Spesso si tratta di sfide da portare a termine una dopo l’altra, come in un gioco a livelli. Si partecipa, ci si filma, si posta l’impresa a caccia dei like. Gli altri commentano e incitano a proseguire, in una spirale perversa».
I genitori di Igor hanno detto che in casa c’era il Parental control e che avevano discusso con lui dei pericoli della Rete. Tutto questo quindi non è sufficiente?
«I video che, stando alla cronologia del pc, ha visto Igor erano su YouTube (poi sono stati oscurati dalla Procura di Milano, ndr): un sito aperto, dove nella maggior parte dei casi si naviga senza filtri» prosegue Ziccardi. «Inoltre, gli adolescenti sono abbastanza svegli da eludere i limiti con pochi clic o si scambiano i filmati via chat. Non solo: spesso hanno una seconda, una terza vita elettronica completamente differente da quella “fisica”, ovvero da come si mostrano a casa o in classe. I social sono tanti e su ognuno un figlio può crearsi un profilo diverso, un nuovo “corpo elettronico”. Non pensiamo, come si è detto, che il pericolo si nasconda solo nel deep web, ovvero in quei siti sommersi che non si trovano facendo ricerche su Google».
Allora i genitori non devono controllare?
«Non è questa la strada per prevenire» precisa Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione Il Minotauro, che si occupa di adolescenza. «Mettere argini a Internet, dove non ne esistono per definizione, è un’arma spuntata. È più efficace il dialogo. La vita reale è intrecciata con quella virtuale: se ci interessiamo all’esistenza online dei figli, sarà più facile capire e farli confidare».
Come dialogare con i ragazzi, per natura sfuggenti?
«Con un approccio curioso» consiglia lo psicologo Lancini. «Non partiamo sentenziando che il web è una perdita di tempo: alzeremmo un muro. Chiediamo che social usano, quanti follower hanno, chi seguono. Quando li vediamo incollati al pc o allo smartphone abbandoniamo i toni inquisitori e domandiamo loro di spiegarci cosa li interessa, o se hanno visto qualcosa che li ha turbati. Accanto al dialogo, serve l’educazione. La fondazione Il Minotauro ha proposto al Garante per l’infanzia di istituire la “patente” per la Rete, con corsi per genitori e figli. Perché è inutile chiedere ai figli cosa fanno sul web se non lo si conosce. Allo stesso tempo, è pericoloso farli entrare in questo mondo senza che abbiano gli strumenti per capirlo. È come regalare la Ferrari a chi non ha frequentato scuola guida».
Allora è giusto dire che lo smartphone a 10 anni sia un’esagerazione?
«Può esserlo» puntualizza Lancini. «Spesso i genitori lo danno per controllare cosa fanno i figli o non farli sentire esclusi da un gruppo in cui tutti lo possiedono. Io non sono per i divieti, che possono essere aggirati e minare il dialogo, ma per l’uso consapevole. Occorre una patente per il web, da prendere alle medie».
Perché i giovani sono così attratti da sfide al limite?
«Non vogliono sentirsi onnipotenti, come spesso si pensa» chiarisce Lancini. «I ragazzi, crescendo, capiscono che si può morire. E con tali sfide vogliono quasi guardare in faccia la morte, per sperimentarla e controllarla. Non si tratta di un istinto suicida, insito in giovani problematici, ma di una tappa della crescita. Ai nostri tempi si correva in motorino, oggi si rischia con le sfide sul web».
La famiglia di Igor ha sottolineato che occorre far capire ai figli che possono sempre confidarsi. Non è semplice…
«Noi non parlavamo con i genitori perché erano autoritari. Oggi i giovani tacciono per paura di deluderci» conclude Lancini. «In fondo hanno ragione: per esempio, consideriamo una loro bocciatura come un nostro fallimento. È ora di invertire la rotta: mostriamoci più calmi e sicuri. Iniziamo a ripetere loro che, qualunque stupidaggine commettano, noi non soffriremo perché è una loro responsabilità, ma saremo sempre al loro fianco per risolverla insieme».
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