«Neanche Annamaria Franzoni ha avuto lo stesso trattamento». Sono cariche di rabbia le parole di Martina Levato. La studentessa milanese, 25 anni, ne sta scontando 20 di carcere per aver aggredito con l’acido i suoi ex nel 2014, ma non vuole perdere il figlio avuto dall’allora amante e complice Alexander Boettcher. Questa non è l’unica storia di legami “spezzati”: secondo il ministero della Giustizia, sono quasi 30.000 i minori che vivono fuori dalle case d’origine, anche solo per un breve periodo. E i riflettori puntati sul caso Levato hanno riacceso la discussione su quando e come sia giusto togliere i bambini ai propri genitori.
La regola da seguire è il bene del piccolo
«Ho presentato ricorso in Cassazione contro la sentenza che ha dichiarato adottabile suo figlio» spiega Laura Cossar, avvocato di Martina Levato. «Per il giudice i reati gravissimi che ha commesso la rendono una madre inadeguata. I fatti sono innegabili, però lei si è pentita e sta scontando la pena. Quindi chi ha commesso un crimine non può fare il genitore? Il nostro ordinamento è fondato sulle rieducazione, che in questo caso però viene negata. Il bambino è nato ad agosto 2015 (quando Martina Levato era già in carcere, ndr): in pochi mesi il tribunale lo ha dichiarato adottabile, mentre di solito questi procedimenti durano anni. Martina ora ha 25 anni, ha ripreso gli studi, lavora in carcere.
Eppure la sentenza di adottabilità ricopia la perizia psichiatrica che le avevano fatto quando lei è stata arrestata. Non è più quella persona». La battaglia, dunque, si annuncia aspra. «Non è un bene» avverte Cesare Rimini, avvocato di grandissima esperienza. «Forse il piccolo ha bisogno proprio di essere allontanato dall’eco legata alla vicenda. Spero che i due gradi di giudizio che lo hanno dichiarato adottabile abbiano tenuto conto anche di questo: il bene del minore è tutto. Purtroppo, invece, aumentano i casi in cui il figlio diventa, magari inconsciamente, uno strumento di rivalsa, di riabilitazione. Un bimbo deve essere solo un bimbo, punto. E gli avvocati di famiglia devono essere prima di tutto avvocati dei bambini: sono loro i più indifesi».
Non bastano i sospetti, servono le prove
«Una volta si parlava di patria potestà, oggi di responsabilità genitoriale: questa può decadere se l’adulto è violento verso il figlio o altri, se espone il bambino a pericoli, se lo trascura ripetutamente» spiega Alessandro Sartori, presidente dell’Associazione italiana degli avvocati per la famiglia e per i minori. Ma come parte l’iter? Di solito quando un parente, un insegnante o un conoscente segnalano un caso ai servizi sociali. È accaduto ai genitori-nonni di Casale Monferrato, finiti sulle pagine di cronaca per aver avuto una figlia nel 2010, quando avevano lei 56 anni e lui 68, e accusati da un vicino di casa di abbandono della bimba, poi adottata da un’altra famiglia. È stata invece la preside della scuola a denunciare la situazione della 14enne di Bologna, originaria del Bangledesh, a cui la madre aveva rasato i capelli perché non voleva portare il velo: subito allontanata dalla famiglia, la ragazzina rimarrà in comunità.
Servirebbe un tutore, una figura super partes che monitori queste storie così delicate dall’inizio alla fine
«I servizi sociali indagano e mandano una relazione al Tribunale dei minori, che può aprire il cosiddetto provvedimento di decadenza» continua l’esperto. «A questo punto la responsabilità genitoriale può essere sospesa: è come se fosse affievolita, le capacità dell’adulto vanno monitorate, viene aiutato a migliorarsi e il giudice può decidere di allontanare lui di casa, se è violento o ha problemi di droga. Oppure la responsabilità può decadere: il minore è portato in una struttura protetta, i rapporti con la famiglia si interrompono, ma psicologi e assistenti sociali ». Quando la situalavorano per ricucire lo strappozione è irrecuperabile o se ci sono gravi questioni penali in corso, il giudice dichiara il minore adottabile e, se è possibile, lo affida a nonni o parenti. «L’allontanamento è una misura estrema basata su prove» precisa Elena Giudice, assistente sociale che collabora con il Tribunale di Milano da 17 anni. Sono decisioni sempre delicate che talora si innestano in indagini e processi molto complessi: basta pensare agli oltre 40 provvedimenti di allontanamento chiesti negli ultimi mesi dal tribunale di Reggio Calabria per figli di mafiosi.
Bisogna salvare il rapporto con gli altri parenti
Il benessere del bambino e la relazione da preservare con la famiglia d’origine: si gioca su questo difficile equilibrio la scelta di portare via un piccolo dalla casa in cui è cresciuto. «Quando ci segnalano una storia critica, ci prendiamo del tempo per conoscere una famiglia, parlare con genitori, parenti, amici e provare a cambiare le cose insieme» dice l’assistente sociale Elena Giudice. «Negli ultimi anni sono aumentati i casi di grave trascuratezza: bimbi abbandonati a se stessi da genitori falcidiati dalla crisi o da situazioni sociali difficili. In situazioni simili proponiamo agli adulti un aiuto per trovare un lavoro e una terapia familiare con lo psicologo. È un percorso lungo, ma spesso funziona. Se mancano i risultati, o se il bimbo è in pericolo, scatta l’allontanamento. Ma non deve mai venire meno il dialogo».
Però a volte il meccanismo si inceppa. «In ogni caso, oltre alle prove, pesa l’empatia del giudice, perciò possono risultare disomogeneità tra tribunali» prosegue Giudice. «Il problema spesso è a monte. Molti genitori in difficoltà ignorano che potrebbero chiedere sostegno prima che sia troppo tardi». Non bisogna poi dimenticare quello che succede nel cuore e nella mente dei piccoli. «Anche se la quotidianità è fatta di urla e strattoni, l’allontanamento è un trauma enorme: il bambino si sente strappato dalle sue radici» nota Paola Di Blasio, direttore del dipartimento di Psicologia all’università Cattolica di Milano e fondatrice del Centro per il bambino maltrattato. «Spesso gli operatori chiedono ai genitori di accompagnare il piccolo in comunità, a lui spiegano cosa succederà. Ma è difficile coordinarsi con giudici, avvocati e assistenti sociali e seguire le famiglie per un intero processo. Ecco perché servirebbe un tutore, una figura super partes che monitori queste storie tanto delicate dall’inizio alla fine. E ci vorrebbero più fondi: la valutazione delle competenze genitoriali fatta dallo psicologo è obbligatoria solo quando c’è il decreto di allontanamento del tribunale, non prima. Un’assurdità».
I numeri in Italia
91.000 I minorenni seguiti dai servizi sociali in Italia. 55% I ragazzini seguiti per trascuratezza materiale e/o affettiva. 19% I minori seguiti perché hanno assistito a episodi di violenza domestica. 14% Le situazioni di maltrattamento psicologico. 20% I minori seguiti dai servizi sociali e mandati in una comunità. 14% I ragazzini affidati ad altri familiari. (Fonti: Indagine nazionale sul maltrattamento dei bambini e degli adolescenti in Italia firmata dalle associazioni Terre des Hommes e Cismai).