Nel 2017 sono sbarcate in Italia 119.247 persone, dice l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, il 34% in meno rispetto al 2016. Eppure nella percezione comune gli immigrati sono tanti, e fanno paura. Un sentimento comprensibile, ha detto Papa Francesco in occasione della Giornata mondiale del migrante e del rifugiato, il 14 gennaio, perché «non è facile mettersi nei panni di persone così diverse da noi, comprenderne i pensieri e le esperienze. E così spesso rinunciamo all’incontro con l’altro e alziamo barriere per difenderci». A Macerata la barriera è diventata scontro. Il 3 febbraio Luca Traini, 28 anni, ha sparato dalla sua auto ai neri che incontrava per strada, ferendone 6. Traini ha posizioni di estrema destra (sulla tempia ha un tatuaggio con il simbolo di Terza posizione, movimento neofascista fondato negli anni ’70 da Roberto Fiore, oggi leader di Forza Nuova) e, prima di essere fermato, ha fatto il saluto fascista. Il suo gesto ha riacceso i riflettori su immigrazione e razzismo. Lo scorso weekend ci sono stati cortei antirazzisti in tutta Italia, e se n’è parlato perfino durante il Festival di Sanremo, con un emozionante monologo di Pierfrancesco Favino.
Ma cosa vuol dire essere neri oggi in Italia?
Francesco Ohazuruike, 35 anni, ingegnere e scrittore di origini nigeriane, nato a Catania «Ho scritto Negro. La verità è che non potete fare a meno di noi (con Luca Crippa e Maurizio Onnis, appena uscito per Piemme) per sfatare tanti luoghi comuni: che i neri invadono l’Italia, che portano le malattie, che sono ignoranti. Mi sono informato, ho cercato le fonti. I numeri parlano chiaro: senza gli immigrati l’Italia si fermerebbe, l’Inps andrebbe in rovina… In un mondo globale la gente si sposta, mio padre l’ha fatto negli anni ’70, ha studiato medicina e ora lavora in una Asl. Io ho un impiego in una multinazionale di ingegneria nel settore meccanico. Naturalmente ho sentito a volte la discriminazione, la ferocia di certa gente. Però non posso dire che gli italiani sono razzisti, farei un torto alle persone che frequento e non lo sono. Dopo Macerata sono un po’ preoccupato. E anche mia moglie, italiana, mi dice: “Stai attento! Se qualcuno ti prende di mira per strada, lascia perdere”».
Igiaba Scego, 43 anni, scrittrice di origini somale, nata a Roma «Da piccola, negli anni ’80, mi è capitato tante volte di essere insultata solo perché nera. Per strada, sui mezzi pubblici, nei negozi. Sentivo una grande solitudine perché nel quartiere ero l’unica, con la mia famiglia, di colore. Le elementari sono state un incubo, però a scuola ho scoperto che dovevo difendermi: non con i pugni, con la conoscenza. Ho cominciato a leggere molto, a parlare bene. E questa è stata la mia corazza. Mano a mano che l’Italia è diventata multiculturale, non mi sono sentita più sola. Vivo in un quartiere melting pot dove la gente si conosce e si parla, magari ancora ti insultano sull’autobus, ma ci sono tanti come me e tanti italiani antirazzisti. Su questo ho scritto un romanzo che parla di identità, Adua (Giunti), e un libro per bambini, Prestami le ali (Rrsose Sélavy). Quello che non è mai cambiato è il mainstream: nei programmi tv, nelle fiction, nella letteratura. È come se ci fosse un’apartheid culturale che non permette a noi neri di far sentire la nostra voce. Come studiosa poi mi preoccupa il linguaggio dei gruppi di estrema destra: è il linguaggio che usavano i colonizzatori italiani negli anni ’30. Anche gli stereotipi spesso sono gli stessi. Quel passato è stato rimosso, mai elaborato. E arma ancora le mani di chi considera i neri inferiori».
Medhin Paolos, 37 anni, fotografa e regista di origini eritree, nata a Milano «Essere neri in Italia vuol dire avere qualcuno, un amico, uno sconosciuto, un’istituzione, che quotidianamente ti chiede cosa si prova. Te lo ricordano sempre. Con un documento negato, con una frase del tipo: “Come parli bene l’italiano!”. Sei nero perché gli altri intorno ti ricordano che lo sei. Ma non è che io mi svegli la mattina e dica: “Ah sono nera”. Negli anni ’80, quando facevo le elementari, è iniziata questa processione di domande a cui a un certo punto ho smesso di rispondere. Ora ho 37 anni e le domande non sono tanto cambiate. Perché succede? C’è tanta storia d’Italia non raccontata. Ma basta guardarsi intorno: i nomi delle strade, le opere d’arte, certe parole… Ricordano che la storia dell’Italia l’abbiamo fatta anche noi».
Andi Nganso, 30 anni, medico originario del Camerun «Sono arrivato in Italia nel 2006 per studiare all’università. È stata dura: facevo dei lavoretti per pagarmi gli studi. A 20 anni sono passato dall’essere “normale” a “strano”: non ero preparato e provavo una grandissima frustrazione. Poi però ho imparato una tattica di difesa: l’udito selettivo e l’ironia. Non sento più gli insulti, anche se continuano a esserci. A Cantù, poco tempo fa, una signora si è rifiutata di farsi visitare da me e la notizia è circolata. Episodi simili succedono, sono successi. Una volta una bambina di 5 anni mi ha detto: “Dottore, tu sei gentile. A casa i miei genitori mi hanno detto di non parlare con i neri perché sono cattivi”. Alcuni valori devono essere diffusi assolutamente: il mondo è fatto di tanti colori e vanno accettati».
Antonio Dikele Distefano, 25 anni, scrittore di origini angolane, nato a Busto Arsizio (Va) «Penso che quello che provano oggi le persone non sia razzismo ma paura. Io sento la paura degli altri, per esempio della signora che teme le possa rubare la borsa. È una questione di comunicazione, di una percezione sbagliata che nasce dai racconti di cronaca. Quando ero piccolo il problema erano i rumeni che si ubriacavano, da adolescente si diceva che gli albanesi andavano in giro col coltellino, ora ci sono i neri che ammazzano. Io credo nelle nuove generazioni: siamo noi che oggi insegniamo ai nostri padri, a partire da come ci rapportiamo con gli altri». L’ultimo libro di Antonio Dikele Distefano è Chi sta male non lo dice (Mondadori).