L’ageismo è il pregiudizio ai danni di qualcuno in ragione della sua età. Colpisce in prevalenza gli anziani. È ageismo se chiamiamo “nonnina” una signora che non è nostra nonna, se l’infermiere dà del tu a un paziente che ha il triplo dei suoi anni, se l’impiegato in banca usa un tono accondiscendente e infantile con il pensionato allo sportello, se non ascoltiamo chi è più vecchio di noi, convinti che non abbia nulla da aggiungere o da insegnarci.
Ageismo, nessuno è al di sopra di ogni sospetto
Monica è una mia amica e una persona per bene. È consapevole e attenta. Non è ageista, né sessista, né razzista, né abilista, non pratica il body shaming ed è gentile con tutti. A volte usa persino la schwa per essere più accogliente. Monica è una donna al di sopra di ogni sospetto ma, in realtà, nessuno di noi lo è. L’altro giorno mi ha raccontato di avere inviato la sua candidatura per un nuovo impiego. «Oh wow! Bello!» ho commentato, perché siamo una repubblica fondata sul lavoro e perché le nuove avventure meritano entusiasmo. «Insieme al curriculum ho allegato anche una lettera di presentazione» ha raccontato esitante. «Ci sta» l’ho rassicurata. «Però non so se ho fatto bene» si è incupita. «Perché?» Nella lettera aveva precisato, come se fosse una colpa, di avere 55 anni. «Forse siete alla ricerca di una persona più giovane» aveva scritto a mo’ di scusa, mettendo le mani avanti.
L’ageismo interiorizzato
Siamo le nostre peggiori sabotatrici, in effetti. Ma questa non è una novità. Quello che sorprende e deprime in quel messaggio kamikaze, che anche io avrei potuto vergare o almeno pensare, è il nostro prepotente e pervasivo ageismo interiore persino nei confronti di noi stesse, un fenomeno persino più deprimente dell’autosabotaggio.
Perché, anche quando conosciamo il nostro valore, anche quando abbiamo l’esperienza, anche quando sappiamo che nessuno meglio di noi potrà farcela, ci guardiamo spietate dentro e fuori. E nelle increspature che raccontano la nostra storia, nelle pieghe dei nostri corpi imperfetti, negli spazi pieni e vuoti lasciati dal tempo riconosciamo soltanto la nostra inadeguatezza. I nostri pensieri acuti, la lucidità dei nostri sguardi, la potenza della nostra voce non sono il trampolino da cui lanciarci e prendere il volo, ma lo strumento spietato per giudicarci.
Imparare l’indulgenza
Ci ostiniamo a confrontarci con chi eravamo ieri – silfidi acerbe, giovani rampanti, corpi statuari, sorrisi smaglianti e ingenui – senza accorgerci della meraviglia di consapevolezza e competenza che siamo diventate oggi. Perché agli uomini non succede? Perché si mostrano impudichi e tronfi a ogni età, sempre ubriachi di autostima? Dobbiamo imparare da loro l’arte dell’accettazione e dell’indulgenza. Monica ha avuto quel lavoro. «Sei la persona perfetta. Speriamo solo di essere alla tua altezza» le hanno risposto. Perché a volte vinciamo, nonostante noi.