Nove maggio 1978, il volto dell’Italia cambia per sempre. Nel bagagliaio di una Renault 4, in via Caetani a Roma, viene ritrovato il cadavere di Aldo Moro, presidente della Democrazia cristiana, catturato e tenuto prigioniero per 55 giorni dalle Brigate Rosse. A distanza di 40 anni e dopo 5 processi e 7 commissioni d’inchiesta, restano tante zone d’ombra. Troppe.
Pesò il parere contrario degli Stati Uniti
La gestione di quei drammatici giorni fu lacunosa da subito. «Mancavano una strategia di fondo e una direzione precisa alle indagini» sostiene l’attuale procuratore capo di Trieste Carlo Mastelloni, autore del volume Cuore di Stato (Mondadori) dedicato ai principali intrighi irrisolti della nostra storia recente. «Basti pensare alle operazioni a tappeto per cercare il covo in cui era tenuto Moro, che sembravano spesso di facciata». Per non parlare della scelta di non trattare per non legittimare i brigatisti. Alla fine prevalse la linea dura, impersonata dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga che «si sentì costretto a tener conto costantemente degli equilibri con le grandi potenze: Stati Uniti e Germania» secondo Mastelloni. E la posizione Usa era chiara: cedere avrebbe destabilizzato l’Italia.
Fu inutile anche l’appello del Papa
Forse per questo fallirono altre strade, mai completamente seguite fino in fondo? La famiglia ed esponenti del Vaticano tentarono di organizzare un risarcimento in denaro. E perché non fu seguito Don Antonio Mennini, che pare aver confessato Moro durante la prigionia (circostanza negata, però, dal prelato)? Anche Papa Paolo VI lesse un famoso appello pubblico, dove però si precisava che il rilascio doveva essere “senza condizioni”. Un particolare molto probabilmente imposto dal governo. «Una formula che, appresa dallo stesso Moro, lo convinse che la trattativa non ci sarebbe stata mai» ammette l’autore. Lo capirono anche i famigliari, a partire dalla moglie Eleonora. Che, sentendosi tradita, rifiutò i funerali di Stato.