Con lo scoppio della guerra in Ucraina in Italia è stato dichiarato lo stato di pre-allarme per quanto riguarda le forniture di gas: il primo passo su tre, quello che prevede un monitoraggio della situazione, senza nessuna conseguenza sulle nostre bollette, per il momento. Come ha chiarito il ministero della Transizione ecologica, però, la pre-allerta serve soprattutto a «sensibilizzare gli utenti del sistema gas nazionale della situazione di incertezza legata» al conflitto, anche se per ora la situazione delle forniture è «adeguata a coprire la domanda interna» (è adeguata perché l’Italia aveva provveduto fin da ottobre scorso a stoccare maggiori quantitativi di gas).
Lo stato di preallarme significa che si cercherà di aumentare le forniture alternative rispetto alla Russia, usare il gas naturale liquefatto importato da altre rotte, come gli Stati Uniti, e cercare di aumentare i flussi dai gasdotti non a pieno carico. Tutta teoria, ma nella pratica?
Perché dipendiamo dal gas russo?
Il problema è sorto perché oltre il 40% del gas che utilizziamo in Italia proviene dalla Russia attraverso i gasdotti che attraversano le zone di scontro militare: per esempio Kharkiv, seconda città dell’Ucraina, dove appunto è stato fatto esplodere un gasdotto.
«L’80% della produzione elettrica nazionale, quindi sia per la luce che per il riscaldamento, deriva dal gas perché negli scorsi anni si è scelto di ridurre le emissioni e orientarsi verso la transizione ecologica. Così abbiamo chiuso o trasformato le vecchie centrali a carbone che producono molta più anidride carbonica di quelle termoelettriche, che usano invece il metano: anche questo un gas clima alterante, ma in misura minore» chiarisce Marco Vignola, responsabile energia dell’Unione Nazionale Consumatori.
Quanto gas proprio ha l’Italia?
C’è chi sostiene che l’Italia abbia grandi quantità di gas tutte da estrarre, che ci renderebbero autonomi. Secondo le stime del Governo nel nostro Paese ci sono circa 90 miliardi di metri cubi di riserve di gas, estraibili al 90%. Ma c’è chi, come Europa Verde, sostiene che in realtà siano la metà, sufficienti a soddisfare la domanda «per soli 7 mesi del fabbisogno complessivo annuale».
Da quali altri Paesi potremmo prendere il gas?
«L’alternativa sarebbe aumentare gli approvvigionamenti di gas da paesi come Algeria, Libia Qatar o Azerbaijan, ma bisognerebbe vedere se loro sono in grado di aumentare la produzione in tempi rapidi e se le infrastrutture di trasporto sono in grado di reggere un maggior flusso: per esempio, fortunatamente abbiamo realizzato il Tap (Trans Adriatic Pipeline, il gasdotto – storicamente osteggiato – che collega la Puglia direttamente all’Azerbaijan tramite Canale d’Otranto, Albania, Grecia, Turchia e Georgia, NdR): il raddoppio, però, non significa installare un altro tubo, ma per esempio aumentare la pressione di pompaggio, che richiede interventi sulla infrastruttura, non immediati» spiega ancora Vignola. Va detto che nel 2021 il Tap ha portato circa 7 miliardi di metri cubi di gas, che hanno coperto il 10% del fabbisogno del Paese. Il gasdotto, però, potrebbe avere una portata tre volte maggiore, fino a 25 miliardi di metri cubi di gas, ai quali si potrebbe arrivare, ma solo tra il 2023 e il 2024.
Non potremmo usare il metano liquido?
Ma in Italia abbiamo un altro problema: «Oltre a essere dipendenti dal gas russo, non possiamo neanche sfruttare a sufficienza il metano liquido che gli Usa ci hanno offerto, via mare, perché in Italia abbiamo solo tre rigassificatori, cioè gli impianti che trasformano il metano liquido in gas» aggiunge l’esperto. Le strutture italiane si trovano a Livorno (con una capacità di 3,7 miliardi di metri cubi l’anno), Rovigo (9 miliardi di metri cubi) e Panigaglia-La Spezia (3,5 miliardi di metri cubi): «Sono troppo pochi se pensiamo che solo in Spagna ne hanno 7» spiega Vignola.
Su quai altre fonti energetiche potremmo contare?
Quanto alle fonti alternative al gas, l’Italia è indietro rispetto ad altri Paesi: per esempio la Francia può contare sul nucleare, mentre la Germania si sta convertendo alle rinnovabili in maniera più rapida, anche se anche Berlino ha dovuto riattivare le centrali a carbone, fin da dicembre, di fronte al caro bollette. Al momento il nostro Paese può contare su una minima parte di giacimenti petroliferi, che però coprono solo l’8% del fabbisogno nazionale. Anche il ricorso all’energia solare è particolarmente scarso, mentre quella idroelettrica, soprattutto nelle regioni alpine del Nord, è maggiore e copre il 17% del fabbisogno energetico. Tra le altre fonti, poi, c’è una minima parte di geotermiche, in particolare in Toscana a Larderello e sul Monte Amiata, che coprono circa il 2%.
Le centrali a carbone appena riattivate possono aiutare?
L’Italia ha fatto un passo indietro rispetto agli obiettivi di riduzione degli inquinanti, presi alla conferenza di Glasgow del 2021. Per prevenire eventuali difficoltà di approvvigionamento e per contrastare l’aumento dei prezzi del gas, si è deciso di riattivare 2 delle 7 centrali già a fine 2021: si tratta di quelle a La Spezia (Liguria) e a Montefalcone (Friuli Venezia Giulia). Le altre sono Fiume Santo e Portoscuso (Sardegna), Brindisi (Puglia), Torrevaldaliga (Lazio) e Fusina (Veneto).
A gennaio 2021 la produzione degli impianti a carbone copriva il 4,9% del fabbisogno energetico italiano, mentre secondo gli impegni assunti dall’Italia si dovrebbe azzerare il ricorso al carbone entro il 2025. «Le centrali a carbone non sono ovviamente una soluzione positiva nell’ottica della decarbonizzazione, dunque il loro utilizzo andrebbe visto in ottica emergenziale. Va inoltre detto che il processo di riattivazione non è immediato e il contributo del carbone rimarrebbe dunque limitato» spiega Dario Di Santo, direttore della Federazione Italiana per l’uso Razionale dell’Energia (FIRE).
Con la primavera i prezzi del gas caleranno?
Fortunatamente si va ormai verso la primavera e almeno l’aumento delle temperature dovrebbe ridurre i consumi di gas per il riscaldamento. «Senza dubbio calerà la pressione sugli approvvigionamenti di breve periodo. Ma nei prossimi mesi il gas andrà comunque acquistato, sia per fare fronte ai consumi elettrici e industriali, sia per riempire nuovamente gli stoccaggi, ossia i vecchi giacimenti utilizzati per accumulare gas nel periodo estivo in modo da riuscire a fare fronte all’aumento della domanda in quello invernale» spiega Dario Di Santo, che però non prevede un calo dei prezzi.
I Comuni spengono le luci, ma serve?
«Bisogna impegnarsi a ridurre la domanda di energia attraverso l’efficienza energetica, che è un principio previsto dall’UE (“energy efficiency first”). I Comuni spengono le luci per fare fronte al caro prezzi, ma se avessero nominato l’energy manager negli anni passati e provveduto a realizzare interventi, oggi starebbero meglio. E lo stesso vale per gli altri settori» dice Di Santo, secondo cui le fonti rinnovabili oggi non bastano, ma vanno incentivate, anche riducendo la burocrazia data da «iter autorizzativi penalizzanti» e stop da parte delle soprintendenze.
Il nucleare ci aiuterebbe?
«Non sarei invece ottimista sul nucleare, di qualunque tipo» continua l’esperto. Le soluzioni più recenti non hanno raggiunto i risultati sperati, né in termini economici, né tantomeno ambientali per la gestione delle scorie che pone problemi enormi e ancora irrisolti. Anche volendo essere ottimisti, le “nuove” centrali saranno realizzabili ben oltre il 2030, quando probabilmente avremo per le mani soluzioni molto più interessanti».