Italiani (e italiane) esercito di allergici, in costante aumento, almeno apparentemente. Un popolo che ha una vera e propria ossessione nei confronti delle allergie e al primo campanello d’allarme corre ai ripari, soprattutto con il fai-da-te sotto forma di test che però risultano per nulla affidabili. “Proliferano sistemi per diagnosticare le allergie che vanno dall’analisi del capello all’iridologia alle sollecitazioni linfocitarie: nessuno di loro ha una validazione scientifica, non hanno specificità, sono facilmente manipolabili e danno risultati spesso contradditori” spiega a Donna Moderna la Presidente della Società italiana di Allergologia e Immunologia pediatrica (SIAIP) Marzia Duse. “Questo va sottolineato perché quotidianamente ci imbattiamo in famiglie che investono budget smisurati per ottenere risultati non affidabili” aggiunge l’esperta.
Una vera “fobia” che ci fa spendere troppo
“L’allergia è una malattia e non va sottovalutata, ormai subiamo un condizionamento culturale: in questo momento se un bambino starnutisce tre volte per i genitori è allergico, se ha un puntino rosso significa che ha mangiato qualcosa che gli crea un’allergia: è una vera fobia, ma può portare a una deriva spiacevole, specie per i più piccoli, che rischiano di essere condizionati in modo pesante anche nella loro vita sociale, ad esempio in occasione delle feste dei compagni di classe” spiega Duse, che è anche docente all’Università La Sapienza di Roma. “Se l’allergia, specie alimentare, viene solo ipotizzata o dimostrata in modo incongruo, si possono anche sviluppare disturbi dell’alimentazione, diventando bulimici o anoressici, se arrivano a rifiutare ogni tipo di cibo per paura di stare male”.
Secondo la Società italiana di allergologia (Siaaic) nel 2017 erano circa 20 milioni gli italiani presunti allergici, pronti a sottoporsi a 3/4 milioni di esami inutili, senza fondamento scientifico, spendendo 300 milioni di euro l’anno. Si va dagli esami del capello del capello al pulse test, che valuta la variazione dei battiti del polso a contatto con il sospetto alimento allergene, fino al vega test, che consiste in un elettrodo che viene impugnato e segnala, tramite variazione del voltaggio, una eventuale o ipotetica reazione allergica. Si tratta, però di sistemi molto costosi (da 90 a 500 euro) sui quali i medici nutrono forti dubbi, tanto che gli allergici “veri” sarebbero il 2/4% della popolazione.
Niente fai-da-te, dunque, così come è del tutto sconsigliabile rivolgersi a internet per acquistare prodotti di ogni genere, spacciati per utili in caso di allergie. Occorre piuttosto valutare l’eventuale problema con gli strumenti adatti e in primo luogo rivolgersi al medico (generico o specialista) “anche perché alla fine bisogna comunque affidarsi a un esperto: quando ci si rende conto che non ci sono miglioramenti con i rimedi non scientifici, ecco che si finisce comunque dal medico. Tanto vale non perdere mesi o anni, né tantomeno soldi: gli strumenti più appropriati costano anche molto meno di quelli pubblicizzati e commercializzati ovunque”.
Come si diagnostica (davvero) un’allergia
“Va detto che non c’è un test unico che indichi se si è in presenza di una malattia allergica, ma solo se c’è una predisposizione” – spiega Marzia Duse – “Se questa si associa a una malattia, allora la conclusione viene da sé”. Ma quali test fare?
– Test cutanei: i più validati sono i cosiddetti prik test. Si mette una goccia di allergene sulla pelle, appena scalfita, osservando se si manifest auna reazione sotto forma di ponfo più o meno grande, sulla base di IgE, ovvero anticorpi specifici. “I falsi negativi sono pochissimi, causati solo da un’esecuzione non corretta o da una eventuale assunzione di antistaminici, che riducono la risposta cutanea. Vanno, quindi, fatti senza assunzione di farmaci per non diminuire la reattività individuale” spiega la Presidente della SIAIP;
– IgE nel sangue: se ci fossero delle incongruenze tra l’esito del test e le manifestazioni di una possibile allergia, si procede alla ricerca delle IgE nel sangue tramite prelievo. “Ad esempio, se un bambino ha il raffreddore in primavera e risulta positivo alle graminacee non occorrono altri accertamenti. Se invece il raffreddore è in inverno e si è positivi alle graminacce, allora occorre un approfondimento. Anche in questo caso l’esame è molto preciso e fornisce una fotografia nitida della situazione” dice l’esperta.
– I patch test: si effettuano nei casi in cui le allergie si manifestano con un certo ritardo rispetto all’esposizione all’allergene. “Si effettuano applicando un cerottino o dischetto alla pelle, mantenendolo per almeno 48 ore andando poi a vedere ce c’è una reazione ritardata. Sono particolarmente usati per eventuali allergie a metalli come il nickel. Sono comunque test che vanno interpretati” spiega l’esperta.
– I test di provocazione: sono il livello più elevato di accertamento, a cui si fa ricorso solo in particolari casi e quando non si hanno alternative valide. “Funzionano mettendo nell’occhio o nel naso, per nebulizzazione, l’allergene sospetto in quantità crescente, ma si deve procedere in ambiente protetto, come un ospedale, dove è possibile intervenire tempestivamente in caso di reazione importante. In caso di allergie alimentari come quelle al latte, si procede sospendendo l’assunzione per due settimane e riprendendola, sempre sotto vigilanza medica” dice Duse.
– I test in vitro: a differenza di quelli precedenti, sono condotti non sul paziente, ma in vitro, verificando se i basofili a contatto con l’allergene libera l’istamina, causando una reazione. Sono però molto sofisticati ed eseguiti solo da alcuni laboratori con grande esperienza. Sono ancora oggetto di studio” conclude la docente.
E il glutine?
“Questo è un vero campo minato” – premette Duse – “Perché va distinta la malattia celiaca, data da intolleranza, dall’allergia al glutine. Nel primo caso si procede con test molto precisi (con oltre il 90% di affidabilità) ovvero l’individuazione delle IgE tramite esami del sangue o colonscopia. Nel secondo, invece, si potrebbe ricorrere ai patch test, ma la scienza medica da questo punto di vista presenta ancora molti limiti, perché non si conoscono le esatte cause alla base delle allergie al glutine” dice Marzia Duse.
“Nell’ignoranza, quindi, proliferano i test più fantasiosi, mentre l’unico valido resta quello di provocazione: si sospende per due settimane l’assunzione di glutine e la si riprende, facendo un test di scatenamento. Se sintomi ricompaiono, c’è allergia, altrimenti occorre cercare altro” spiega la docente universitaria.