Quando l’amore è abbastanza? Quando lo è il desiderio? O persino il rimpianto?
Se una persona anziana si ammala, la saggezza suggerisce che quel limite sia stato raggiunto e ci si debba rassegnare: «È la vita, prima o poi… L’età c’è… Ha vissuto bene e a lungo, è questo quello che conta…».
Eppure, dentro di noi, qualcosa si ribella.
Di recente, mia madre (classe 1926), che da alcuni anni ha l’Alzheimer, ha cominciato a soffrire di bronchite asmatica. È una situazione insidiosa. Fare esami accurati non è facile, perché il ricovero, che magari contempla una umiliante degenza in barella, è complicato dall’età e dal fatto che lei non (sempre) è in sé.
A volte sembra star meglio, ma al minimo movimento, fosse pure il semplice cercare una posizione più comoda nel letto, l’affanno riappare.
L’arredamento della sua camera s’è arricchito di una bombola d’ossigeno, e lei la guarda come un oggetto alieno arrivato dallo spazio. Perché, ed è la cosa più dolorosa, non sa di essere malata. Si dispera perché la perseguitiamo con siringhe (ha terrore dell’ago), mascherine, pillole di tutti i colori.
Quando arriva il momento dell’iniezione, l’aiuto ad alzarsi e la reggo. Lei si preoccupa che qualcuno da fuori possa stare appostato per vederla nuda attraverso il balcone. Socchiudiamo le imposte e accendiamo la luce. Sembra sera.
Una volta, quando l’infermiera le ha chiesto «Siete pronta?», a mia madre – già piegata – è scappata una scoreggia. L’altra, napoletana doc, non s’è persa d’animo: «Brava, m’avete dato l’ok!», ha sorriso.
Ma l’ironia non basta. Mia madre mi supplica con gli occhi di salvarla, poi si rassegna e mi appoggia la testa sul petto. Affanna. Vedo dall’alto i suoi capelli radi. Respiro l’odore della sua pelle, e rammento quand’ero io, bambino, ad affidarmi a lei, la mia certezza più grande.
L’ago penetra e lei geme, quasi squittisce di dolore. Poi si accascia sulla poltrona. Socchiude gli occhi, stremata. Di nuovo mi guarda come a chiedermi perché ha ricevuto una punizione così dura, poi mormora un pensiero misterioso: «C’è il sale nel caffè…».
Quando sta meglio le scappa un sorriso. Allora si torna tutti a sperare. Ma a me quel sorriso fa male. L’età l’ha sottratta al suo tempo, e ora lei è qui, in mezzo a noi, spesso senza sapere chi siamo, spaurita come un animaletto selvatico strappato al bosco. La guardo, e i ricordi di una vita mi travolgono. Ripenso a momenti infiniti di gioia che non torneranno più. E di nuovo mi chiedo: quando è abbastanza l’amore?
Ora lo so: mai. Di certe cose non si può essere sazi. Lo diceva Fellini, e la sua frase si adatta alla perfezione a quell’essere/non essere con cui si convive quando in casa nostra entra l’Alzheimer: Non c’è un fine, non c’è inizio, solo infinita passione per la vita…
La rassegnazione non c’interessa. Quando sarà il momento, affronteremo il dolore fino in fondo. E intanto stiamo qui, mamma, che tu lo sappia o no. Pronti a tutto, al tuo fianco, fino all’ultimo respiro.
Lo scrittore Flavio Pagano ha cominciato a occuparsi di Alzheimer quando la malattia ha toccato la sua vita, colpendo la madre, esperienza da cui è nato il romanzo-verità Perdutamente (Giunti). Questa è la terza storia di una serie, “Mai soli”, che vuol raccontare e ascoltare l’universo parallelo che è l’Alzheimer. L’universo di coloro che ne sono colpiti e di chi li assiste, perché curare vuol dire prima di tutto prendersi cura dell’altro.
Le altre storie:
1. Il giorno che mia madre non mi ha riconosciuto
2. L’istituto dove i pazienti si sentono a casa
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