Talia ha quarant’anni, lo zigomo alto e gli occhi un po’ a mandorla, un marito e due figli. Sua madre non c’è più. Suo padre invece, che è giapponese, c’è e non c’è: ha l’Alzheimer.
A volte sembra tranquillo. Non esce dalla stanza, o si aggira per casa appoggiandosi ai corrimano che sua figlia ha fatto sistemare lungo le pareti. Faceva l’ingegnere, e vive in Italia da quarant’anni. Un uomo intelligentissimo, che da un po’ di tempo fa cose strane. Certi giorni resta immobile dietro i vetri del balcone e, contemplando la strada, si mette a parlare da solo nella sua lingua: crede di essere a Tokyo.
Sta perdendo la coordinazione, quando mangia ha difficoltà: bisogna imboccarlo. Ma il momento più difficile è quello in cui dev’essere lavato.
Non tollera che qualcuno lo vìoli così sfacciatamente, che gli vengano messe le mani addosso, che lo si spruzzi con l’acqua e cosparga di sapone.
Si sente umiliato, e attacca. A volte, come un vecchio gatto randagio, graffia e morde. Altre, invece, mena calci e pugni. Se ha qualcosa a portata di mano, la scaglia senza esitare. E grida. In giapponese, in inglese, in italiano, grida e insulta la figlia, chiamandola col nome di quella madre che ora lei vorrebbe disperatamente avere accanto.
Talia ha sempre sopportato tutto senza fiatare. Ma una sera, mentre lo asciugava, lui l’afferrò per i capelli e le sputò in faccia. E quello fu troppo.
Pianse tutta la notte, sfinita, mentre la badante la sostituiva. Suo marito era fuori per lavoro e il giorno dopo lei, sempre riservata, si confidò con una vicina.
«Non ce la faccio più» balbettò, umiliata da quella che considerava una debolezza, se non addirittura un tradimento, «mi perdoni se le parlo dei miei guai…»
Imbevuta di dolore, e stordita dalla solitudine, non si rendeva conto che caregivers e malati sono vittime della stessa tragedia e hanno entrambi bisogno di essere curati. Parliamo di quei coniugi, fratelli, e figli, che resistono accanto a un marito, una moglie, una mamma o un papà che se ne stanno andando, e che si aggrappano a tutto pur di trovare la forza di resistere: persino a uno sguardo perso nel vuoto. Figli che onorano ogni giorno l’immenso amore che ci lega a chi ora sta male, ma che fece di tutto per noi quando eravamo bambini e che, per noi, avrebbe dato anche la vita.
Quando Talia si confidò con la sua vicina, ricevette dall’intero condominio una reazione straordinaria: chi si offriva come babysitter per tenerle i bambini, chi di prepararle la cena, chi di andare semplicemente a farle compagnia, di ascoltarla: «Chiamaci per qualunque cosa, noi siamo qua!»
«L’amicizia che mi dimostrate», rispose Talia «in fondo è l’ultimo regalo che ricevo da mio padre, e per questo mi è ancora più cara», e pianse di nuovo.
Ma, stavolta, erano lacrime di gioia.
Lo scrittore Flavio Pagano ha cominciato a occuparsi di Alzheimer quando la malattia ha toccato la sua vita, colpendo la madre, esperienza da cui è nato il romanzo-verità Perdutamente (Giunti). Questa è la sesta storia di una serie, “Mai soli”, che vuol raccontare e ascoltare l’universo parallelo che è l’Alzheimer. L’universo di coloro che ne sono colpiti e di chi li assiste, perché curare vuol dire prima di tutto prendersi cura dell’altro.
Le altre storie:
1. Il giorno che mia madre non mi ha riconosciuto
2. L’istituto dove i pazienti si sentono a casa
3. Accanto a chi è malato fino all’ultimo respiro
4. La mia mamma malata mi ha accompagnato all’altare
5. La nonna che non ricorda mai che giorno è
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