Quella parola fu pronunciata per caso, sottovoce. Eppure mise radici.
Divenne un’ombra che seguiva ogni pensiero. E continuò ad aleggiare anche se, dal momento in cui s’era capito che mia madre ne aveva terrore, era stata scrupolosamente taciuta.
A dire il vero, più che una parola, era una piccola locuzione: “casa di riposo”.
Venne detta per caso, quasi distrattamente, durante un discorso fra me, mio fratello e il medico curante di mia madre, ma lei la captò immediatamente, la decifrò e la tradusse con brutale chiarezza: «Perché parlate di ospizio? Chi deve andare in ospizio?».
“Nessuno” le rispondemmo. Ma da quel giorno, e per parecchio tempo (finché non se ne dimenticò…), quella parola fu una persecuzione. Viveva nel terrore di essere prelevata all’improvviso, magari nel sonno, alle cinque del mattino, quasi fosse un arresto.
Per settimane si sentì come un animale che ha intuito l’imminenza del macello. Come un cane che, fatto scendere dall’auto in una piazzola di sosta lungo una Statale, comprende dai modi furtivi del padrone che qualcosa non va. Lo vede risalire in macchina e lo guarda stranito, inclinando la testa. La macchina parte. Il cane abbaia, poi scatta all’inseguimento. E solo quando l’auto è un puntino all’orizzonte, rallenta e si ferma con la lingua di fuori, osservando smarrito il mondo che lo circonda, dove all’improvviso tutto gli pare estraneo.
Quello stesso terrore aveva negli occhi mia madre ogni volta che, per qualche ragione, avvertiva nell’aria un immaginario pericolo. Dimenticava tutto, lei, anche di aver mangiato: ma quella parola no. Quella durò tutta l’estate.
«Che mi volete fare? All’ospizio non ci vado!» gridava. Una volta scoppiò in lacrime. E non ci fu verso di calmarla, finché, sfinita, non s’addormentò.
A nulla valse il rassicurarla, giurarle che mai l’avremmo abbandonata.
«Una mamma basta per cento figli» rispondeva lei, sdegnata, citando un vecchio proverbio napoletano, «ma cento figli non bastano per una mamma!».
Io e mio fratello ci sentivamo umiliati. Anche perché, in fondo, sapevamo che diceva la verità: mai avremmo saputo ricambiare l’amore immenso che da lei avevamo ricevuto.
Tuttavia la nostra decisione fu ferma: in casa di riposo, no. Scegliemmo il caregiving e fortunatamente le condizioni di mia madre ci hanno consentito di continuare.
Ma ci sono situazioni in cui, con tutto il coraggio del mondo, non si può più gestire in casa un malato di Alzheimer, e in quel caso è assurdo sentirsi in colpa.
Tuttavia, finché è possibile, meglio lottare per tenere i propri cari con sé, fra gli affetti familiari, che per loro (anche se a volte ci sembrano chiusi in una immutabile indifferenza, quasi che il flusso della loro vita si fosse indurito come una colata di lava ormai fredda), sono preziosi quanto l’aria.
Come del resto lo sono per noi: perché l’amore dà forza a chi è amato e a chi ama.
Perché solo l’amore dà un senso alla vita.
Lo scrittore Flavio Pagano ha cominciato a occuparsi di Alzheimer quando la malattia ha toccato la sua vita, colpendo la madre, esperienza da cui è nato il romanzo-verità Perdutamente (Giunti). Questa è l’ottava storia di una serie, “Mai soli”, che vuol raccontare e ascoltare l’universo parallelo che è l’Alzheimer. L’universo di coloro che ne sono colpiti e di chi li assiste, perché curare vuol dire prima di tutto prendersi cura dell’altro.
Le altre storie:
1. Il giorno che mia madre non mi ha riconosciuto
2. L’istituto dove i pazienti si sentono a casa
3. Accanto a chi è malato fino all’ultimo respiro
4. La mia mamma malata mi ha accompagnato all’altare
5. La nonna che non ricorda mai che giorno è