Le donne sono più colpite dall’Alzheimer, soprattutto con l’arrivo della menopausa. Una ricerca italiana indica quali potrebbero essere i motivi e soprattutto come si può agire per proteggere il cervello femminile dalla più diffusa tra le malattie neurodegenerative legate all’invecchiamento, che porta alla cancellazione progressiva dei ricordi ed è a sua volta tra le principali cause di demenza senile.
L’Alzheimer e la menopausa
Secondo i dati statistici, i sintomi dell’Alzheimer compaiono generalmente dopo i 60 anni: ne soffre circa una persona su 20 tra gli over 65 (e meno di 1 su 1.000 tra chi ha meno di 65 anni). La maggior parte è donna e finora si pensava che la causa fosse legata a una maggiore longevità femminile. In realtà i motivi sembrano essere legati agli estrogeni, gli ormoni femminili, che con l’arrivo della menopausa diminuiscono, riducendo anche la naturale protezione contro diverse malattie, compreso l’Alzheimer: «Gli estrogeni hanno una funzione protettiva contro la morte cellulare e i processi che favoriscono la formazione delle placche di Beta amiloide nel cervello, che sono tra le cause dell’Alzheimer. Questo spiegherebbe perché la malattia colpisce di più le donne» spiega Elvira De Leonibus, Responsabile del gruppo di neuropsicofarmacologia del Cnr-Ibbc (Istituto di biochimica e biologia cellulare del Consiglio Superiore delle Ricerche) che ha lavorato allo studio, pubblicato sulla rivista Progress in Neurobiology, finanziato dall’Associazione americana per la malattia di Alzheimer e condotto insieme alla Fondazione Telethon.
Come gli estrogeni agiscono sul cervello
La ricerca ha mostrato però un altro ruolo degli estrogeni, che spiegherebbe perché l’Alzheimer compare dopo la menopausa: le fluttuazioni ormonali femminili hanno un effetto negativo sull’ippocampo, la parte del cervello deputata alla trasformazione della memoria da breve a lungo termine e all’orientamento nello spazio: «La variazione degli estrogeni in circolazione (per esempio durante il ciclo) influisce sui neuroni dell’ippocampo, disturbandoli come un rumore di fondo e peggiorandone il funzionamento soprattutto con l’arrivo della menopausa che rappresenta un momento di grandi variazioni ormonali» spiega la ricercatrice. Ciò spiega anche perché le donne “ricordano” in modo diverso dagli uomini.
Donne e uomini si orientano in modo diverso
Partendo dal presupposto che la perdita di memoria e di capacità di orientamento nello spazio sono due dei primi e maggiori sintomi dell’Alzheimer, i ricercatori hanno indagato il diverso modo di ricordare tra uomini e donne: mentre i primi tendono a utilizzare l’ippocampo, le seconde fanno ricorso ad altre strategie. Questo per due motivi: «Da un lato si è visto che il testosterone (l’ormone maschile) tende a favorire un maggiore sviluppo dell’ippocampo negli uomini fin dalle prime fasi della vita. Dall’altro, per ovviare alle fluttuazioni ormonali ecco che le donne ricorrono ad altri circuiti cerebrali per ricordare o orientarsi nello spazio, come quello fronto-striatale» spiega la ricercatrice. Ma in cosa si traduce questo? «Un esempio tipico è il modo in cui ci si orienta in una città nuova: mentre gli uomini ricorrono a una visuale dall’alto, ricreando una sorta di mappa spaziale aerea, le donne privilegiano la scelta tra destra-sinistra o avanti-indietro, con una cosiddetta strategia route-finding» spiega De Leonibus. Questo può avere conseguenze a lungo termine?
L’ippocampo è un’area del cervello da allenare
La ricerca suggerisce che se si usa meno l’ippocampo si può ridurre il suo funzionamento, in particolare la memoria a lungo termine, proprio come se si trattasse di un muscolo che si atrofizza. «Nell’immediato la performance femminile non è ridotta, perché si usano semplicemente strategie differenti. Il rischio potrebbe esserci sul lungo periodo perché un minor ricorso all’ippocampo potrebbe aumentarne l’atrofia e renderla più vulnerabile all’invecchiamento» avverte l’esperta, che però aggiunge: «Fortunatamente c’è una buona notizia: ci sono attività ed esercizi che possono aiutare a proteggere il cervello. Ad esempio, i soggetti con un’alta socialità, che stimolano molto l’attività cognitiva, hanno una maggiore protezione contro il decadimento cognitivo».
Orienteering: l’esercizio ideale
Le attività benefiche vanno dalla socializzazione fino al brain training, ossia veri «allenamenti» che secondo i ricercatori del Cnr dovrebbero comprendere anche esercizi di orienteering: «È un termine inglese che indica uno sport molto diffuso in alcuni paesi esteri che consiste nel seguire un percorso, dotati di mappa, che porti a un punto di arrivo determinato» premette l’esperta. Ma perché farebbe bene al cervello? «Intanto è un’attività fisica all’aria aperta e quindi aumenta il senso di benessere generale, migliora la circolazione sanguigna e l’ossigenazione, riduce la massa grassa e abbassa le infiammazioni. In particolare, però, l’orienteering rallenta il processo di invecchiamento cellulare perché stimola l’ippocampo che è l’unica area cerebrale nella quale si possono produrre nuovi neuroni anche in età adulta, cosa che non accade se ci si affida da un gps, perché l’ippocampo rimane a riposo» spiega De Leonibus.
Cos’è la memoria a lungo termine
Un’altra attività utile è imparare sequenze di numeri a memoria, come accadeva con quelli telefonici fino a qualche anno fa, quando ne conoscevamo anche 15 o 20. Oggi si ricordano a malapena quelli dei parenti stretti, mentre gli altri sono memorizzati negli smartphone. In compenso, però, si imparano sempre nuovi pin o password: «In realtà i pin sono costituiti in media da 4 o 5 numeri, che ricordiamo ma non così a lungo, perché è solo dai 6/7 in su che viene coinvolto l’ippocampo, dunque la memoria a lungo termine. Oggi viene stimolato molto meno che in passato, perché non tutti i compiti di memoria lo coinvolgono. Ad esempio, imparare ad andare in bicicletta o suonare il pianoforte richiedono una memoria procedurale, che è di altro tipo. Ciò spiega perché nelle prime fasi della malattia i pazienti Alzheimer non riconoscono i volti, ma ricordano un brano musicale o una canzone. In quest’ultimo caso, infatti, i ricordi sono stati trasferiti dall’ippocampo alla corteccia cerebrale, che viene aggredita dalla malattia solo in un secondo tempo» spiega De Leonibus.
Quanto conta l’abitudine
Infine, tra gli elementi che possono proteggere dall’insorgenza dell’Alzheimer non va dimenticato il fattore culturale ed educativo: «Anche tra le donne ci sono differenze individuali, come livelli ormonali diversi, ma soprattutto culturali: alcune sono più abituate a seguire strategie cognitive più simili a quelle maschili. Si pensi, ad esempio, a una bambina nata in un piccolo centro e abituata fin da piccola ad andare a scuola a piedi o da sola, e una che invece abiti in una grande città e sia accompagnata in auto dai genitori fino a 14 o 15 anni. Il grado di stimolazione dell’ippocampo sarà molto diverso. Questo ci indica che i fattori ambientali, ma anche l’allenamento, possono fare la differenza» aggiunge l’esperta.
La terapia ormonale può aiutare contro l’Alzheimer
Un ultimo aiuto contro l’Alzheimer può arrivare dalle terapie ormonali: «Il nostro team sta indagando l’abbinamento tra attività fisica e somministrazione di ormoni a basso dosaggio nelle fasi iniziali della menopausa, quando la combinazione di questi fattori sembra dare una protezione verso l’Alzheimer e la demenza. Occorre, però, fare attenzione: una assunzione in fase avanzata o a livelli troppo elevati di ormoni potrebbe persino aumentare i rischi, quindi occorre proseguire nella ricerca» conclude de Leonibus.