Non ha ancora un nome ma solo una sigla la molecola destinata forse a cambiare il destino dei malati di Alzheimer, la malattia neurologica che porta lentamente alla disgregazione della mente. La LM11A-31 infatti ha un’azione completamente diversa dai farmaci che vengono prescritti oggi. Questo almeno sulla carta. Dopo le prove sulle cavie, è in corso un trial di fase 2, cioè per valutare la sicurezza del principio attivo. E se i risultati saranno positivi, la molecola potrà essere testata su malati.
Come funziona la nuova molecola
«Gli studi preliminari sono stati positivi, ma è presto per gridare vittoria» spiega Giuseppe Di Fede, neurologo responsabile del laboratorio di genetica e biochimica demenze, Unità operativa neurologia 5, Istituto Besta di Milano. «In sé il meccanismo è valido. Dovrebbe infatti potenziare la protezione delle cellule nervose dagli effetti tossici di tau e amiloide, le due proteine responsabili della malattia, grazie alla sua capacità di legarsi a un recettore cellulare per le neutrofine. Si tratta di una famiglia di sostanze che mantengono attivi e vivaci i neuroni, ovvero le cellule cerebrali. E sarebbero a quel punto i neuroni stessi a combattere la malattia, mettendo in atto una serie di azioni che consentono di bloccare gli aggregati di tau e di amiloide e impedire la loro azione tossica sule cellule nervose. Il farmaco ha inoltre mostrato di poter impedire alcune modificazioni della struttura della proteina tau, che ne aumentano la tossicità». La molecola comunque funzionerebbe nelle fasi precoci, perché quando il danno è radicato, purtroppo anche con la nuova molecola gli effetti potrebbero essere insufficienti a bloccare la progressione della malattia.
La diagnosi dalla saliva
Ma questo non è l’unico studio in corso. I neurologi sono concentrati sulla ricerca di nuovi strumenti diagnostici e sull’individuazione di biomarcatori, cioè di sostanze presenti nei liquidi biologici, come la saliva, che permettano di svelare la malattia tempestivamente. E per la prima volta, iniziano anche a emergere i risultati positivi sul ruolo dello stile di vita. «Oggi sappiamo che alcune abitudini quotidiane come il troppo stress e l’assenza di pause piacevoli, possono aumentare il rischio di malattia» spiega Antonio Guaita, direttore della Fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, Milano, che dal 2009 sta conducendo un vasto studio nella provincia milanese. «Perché possono alterare l’attività dei neuroni e irrigidire l’ippocampo, la zona del cervello che svolge un ruolo importante nell’apprendimento e nella memoria».