Nuove indicazioni sui campanelli di allarme, un mix di colloqui, test ed esami messi a punto a livello internazionale. Sono le novità grazie alle quali oggi è possibile diagnosticare precocemente e rallentare la progressione dell’Alzheimer. Dati alla mano, queste armi a disposizione degli specialisti consentono di mettere a punto terapie ad hoc e di ritardare di circa dieci anni l’inizio dei problemi seri di memoria e di orientamento, a tutto vantaggio della qualità di vita.
Nel frattempo, la ricerca prosegue con un obiettivo ambizioso: la formulazione di farmaci innovativi che potrebbero ritardare del 50% la progressione della malattia, con una diminuzione dei casi più gravi. Una grande sfida, che in parte è già una realtà, come ci racconta Roberta Perri, responsabile di una delle équipe del Centro per i disturbi cognitivi e le demenze della Fondazione Santa Lucia di Roma, centro d’eccellenza a livello internazionale.
Quali sono i campanelli d’allarme che devono insospettire?
«Oggi sappiamo che chi ha problemi di memoria ha un rischio di ammalarsi di Alzheimer dal 12 al 25% più alto rispetto a chi non ha disturbi. A far sospettare che qualcosa non va non è tanto la parola che rimane sulla punta della lingua, ma poi emerge, oppure la disattenzione passeggera di una giornata. Si tratta invece di un problema che negli ultimi tempi si presenta più o meno sempre, come una riduzione della capacità di attenzione e di concentrazione, la difficoltà a ricordare gli eventi più prossimi, quelli dei giorni precedenti, un aumento dell’irritabilità, dell’ansia e, per contro, una diminuzione del desiderio di stare con gli altri. Certo, sono sintomi che possono comparire anche in un periodo di stress molto intenso o durante la menopausa. Per questo bisogna rivolgersi a un neurologo».
Si parla molto in questo periodo di un test sul sangue per la diagnosi precoce: è già disponibile?
«È un’analisi che valuta il dosaggio di una proteina che sembrerebbe presente con molti anni di anticipo in chi si ammalerà, ma al momento viene utilizzata solo nell’ambito della ricerca. Oggi però è già possibile una diagnosi precoce grazie a un mix di test e di esami, supportati da anni di studi. In prima battuta, sono indispensabili il colloquio per conoscere la persona che abbiamo di fronte, i suoi ritmi di vita, i disturbi che lamenta, la presenza di casi di Alzheimer in famiglia e particolari test per valutare le varie capacità cognitive, dall’attenzione al calcolo, dal linguaggio alla rievocazione. L’incrocio delle informazioni con i punteggi ottenuti nello svolgimento dei test ci permette di individuare chi deve continuare il percorso diagnostico. Che prevede innanzitutto la risonanza magnetica per misurare le zone dell’ippocampo, cioè una delle prime aree cerebrali a essere coinvolte dalla malattia. L’altro esame è la Pet, indispensabile per controllare il metabolismo del glucosio, vale a dire, della “benzina” che serve al cervello per funzionare al meglio: in caso di Alzheimer vediamo cali nel consumo. L’ultimo è l’analisi del liquido cerebrospinale che evidenzia la beta-amiloide e la Tau, le due proteine che si accumulano in chi ha l’Alzheimer».
È vero che è in arrivo la prima terapia contro l’Alzheimer?
«Bisogna essere cauti, per evitare di accendere troppe speranze nei pazienti. Aducanumab, questo è il nome del principio attivo, fa parte della famiglia degli anticorpi monoclonali e in chi ha una forma iniziale sembra in grado di disattivare l’attività della beta-amiloide, permettendo così il rallentamento del declino cognitivo e funzionale. Non è poco, perché questo consentirebbe ai malati di Alzheimer di condurre una vita molto simile a quella dei coetanei. Al momento è usato solo all’interno di ricerche ed è in fase di approvazione da parte della FDA, l’ente americano dei farmaci. Abbiamo anche allo studio, in un trial clinico svolto da noi, un farmaco preso in prestito dalla terapia per il Parkinson. Il principio attivo si chiama rotigotina e migliora l’attività del neurotrasmettitore dopamina nel cervello, a favore delle funzioni esecutive, come il ragionamento e l’orientamento. Sono entrambe terapie promettenti ma, allo stato attuale non ci sono molecole in grado di modificare la storia della malattia».
Ma cosa possiamo fare già oggi?
«Grazie alla diagnosi precoce oggi siamo in grado di tenere sotto controllo la malattia per almeno dieci anni. Se è una forma precocissima, e questo lo vediamo dagli esami, preserviamo il più possibile la riserva cognitiva, cioè il patrimonio di neuroni non ancora danneggiato, con esercizi personalizzati per mantenere in allenamento le funzioni cerebrali. Quando invece dagli esami emergono le prime tracce della malattia, aggiungiamo un farmaco della famiglia degli inibitori dell’acetilcolinesterasi, che mantiene la produzione cerebrale dell’acetilcolina, cioè della sostanza importante per la memoria e il pensiero. Certo, non è una cura risolutiva perché con l’avanzare della malattia, e quindi con la morte dei neuroni, il farmaco perde i suoi effetti. Però consente di guadagnare anni di vita attiva».
Anche il microbiota aiuta a tener lontano l’Alzheimer
Tenere allenata la mente con tecniche mnemoniche e cruciverba, si sa, è di grande aiuto per allontanare il rischio di Alzheimer. Meglio ancora se si varia il più possibile il training cognitivo. Lo suggeriscono i ricercatori del Karolinska institute che consigliano di inserire tra gli esercizi una sfida, come imparare a suonare uno strumento musicale, oppure una lingua straniera. In questo modo si mantiene agile la memoria e l’attenzione.
Hai un’alimentazione disordinata? Correggila e fai tuo uno stile di vita sano: niente fumo, una regolare attività fisica. In questo modo, mantieni in equilibrio il microbiota, cioè l’insieme di batteri che popolano il tuo intestino. Uno studio recente a firma italiana ha dimostrato che ha un legame stretto con il sistema nervoso centrale sano.