Ormai la parola Alzheimer è entrata nel nostro vocabolario, spesso a sproposito. Nell’immaginario di tutti, rappresenta lo spauracchio del decadimento cognitivo. E così, le piccole dimenticanze, un nome che non viene in mente, la macchina “persa” nel parcheggio, viene spesso etichettato così, in modo frettoloso e leggero (dove la leggerezza è solo apparente perché dietro c’è la paura). Ma è proprio a questo punto, invece, che non bisogna essere frettolosi, perché questi segnali vanno affrontati, qualunque malessere nascondano. Potrebbero essere i primi sintomi di questa malattia. Ma potrebbero anche non esserlo.
Quando i sintomi devono allarmarci
Negli ultimi 20 anni la ricerca ha capito le cause della malattia, su cui per la prima volta si potrà agire grazie a un nuovo farmaco che dovrà essere sottoposto al vaglio dell’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) prima di essere importato in Italia: l’Aduhelm, di cui avevamo già dato notizia. È fondamentale, però, intervenire prima, quando si notano i primi sintomi. Se si riuscisse a coprire questo gap, i farmaci che abbiamo già a disposizione sarebbero ancora più efficaci. Ma perché è così difficile riconoscere questi sintomi? Approfittiamo della 28esima Giornata mondiale dell’Alzheimer – in cui in tutto il mondo il 21 settembre di ogni anno si desta l’attenzione sulla malattia – per chiedere aiuto al Prof Paolo Caffarra, membro del Consiglio Direttivo di Airalzh (Associazione Italiana Ricerca Alzheimer), ex responsabile di U.O. Gestione Demenze dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Parma, ora docente all’Università di Parma e membro del Tavolo Ministeriale permanente sulle demenze. «Dimenticare dove si mettono le chiavi o la macchina, di per sé non deve preoccupare, ma non dobbiamo neanche rimuovere questo fatto. Se succede per due-tre mesi, in modo continuativo, occorre approfondire e non arretrare all’idea di cercare l’aiuto di un neurologo».
Come capire se si tratta di stress, ansia o depressione
Il neurologo è lo specialista giusto: a lui – proprio in questa fase che sembra così precoce – il compito di capire se si stratta di un disturbo cognitivo soggettivo, in molti casi temporaneo, oppure di qualcosa che evolverà in una demenza, di cui l’Alzheimer è una forma. «Teniamo presente – prosegue il professor Caffarra – che il 14 per cento di questi casi progredisce nella demenza e circa il 27% verso il cosiddetto Mild Cognitive Impairment (MCI o Danno cognitivo minore) che a sua volta tende a progredire verso la demenza nel 25% dei casi circa già al primo anno. Però occorre ricordare che il resto rimane costante o ritorna normale: può trattarsi molte volte di stanchezza, ansia o depressione, legati per esempio a un cambio di lavoro, di città, alla menopausa o a un evento particolarmente stressante, fattori che si portano dietro proprio questi disturbi. E di cui il neurologo, nell’anamnesi, deve tenere conto. Dunque anche in questa fase molto precoce occorre fare indagini accurate che, ovviamente, hanno il loro costo. Ma, si sa, ciò che si spende prima, si risparmia dopo».
Anche se è depressione, va curata
Il problema però è proprio capire che quello che ci sta succedendo (o sta capitando a un familiare) non è depressione o stress, ma qualcosa di diverso. L’AIMA (Associazione Italiana Malattia di Alzheimer) ha una linea verde sempre attiva per sostenere i malati e i caregiver, ma anche per aiutare proprio a decifrare la malattia (il numero 800 679 679 è sempre attivo e il 21 settembre la rete di psicologi è a disposizione per colloqui gratuiti). La dottoressa Francesca Tilloca, psicologa, ne è la responsabile. «La depressione può causare perdite di memoria simili a quelle legate alla malattia di Alzheimer e spesso si associa a un esordio di demenza. Una valutazione psichiatrica o neuropsicologica possono aiutare a comprendere la natura dei sintomi e ad indirizzare la persona verso il percorso più adatto». Questo affollamento di esperti di fronte a quelli che ci sembrano piccoli deficit non deve allarmare, anzi. Intervenire per tempo è fondamentale per rallentare eventualmente il cammino della malattia. Gli studi clinici hanno dimostrato che i farmaci possono ottenere risultati meno favorevoli quando la malattia è già in fase conclamata. «Spesso le persone tendono a razionalizzare i problemi di memoria e ad attriburili allo stress o alla stanchezza. È un meccanismo di protezione associato spesso a una giustificata inquietudine. In questa fase è possibile approfondire e accertare la presenza o meno di deficit cognitivi significativi».
I segnali più “facili” da capire
Quando a queste dimenticanze si aggiunge il rallentamento o la difficoltà nello svolgere le attività di tutti i giorni, il ritiro dalla vita sociale, la ricerca della solitudine, vuol dire che la malattia potrebbe essere già in una fase conclamata. «In questo caso, è più semplice per i familiari capire che qualcosa non va. L’80 per cento dei pazienti va dal neurologo spinto proprio dai familiari, e in genere succede in questa fase, quando i sintomi sono più evidenti. Ma a questo punto si può essere di fronte già a un disturbo cognitivo» spiega il professor Caffarra. «Non è detto poi che si tratti di Alzheimer. Ci sono tante altre forme di demenza con sintomi come disturbi del linguaggio o del comportamento (tipici delle forme frontali) oppure allucinazioni visive o disturbi percettivi (come la difficoltà a fare disegni), tipici della Demenza a Corpi di Lewy. La diagnosi, a questo punto, si effettua con procedure anche invasive come la puntura lombare, che si esegue presso i day hospital attrezzati, alla ricerca dei cosiddetti biomarcatori di malattia».
La stimolazione magnetica transcranica: una nuova terapia?
Anche la ricerca si dedica alle fasi precoci della malattia, proprio per fare diagnosi tempestive con l’aiuto di esami del sangue sempre più specifici (ricercando più parametri biologici combinati tra loro) o l’uso di macchinari ad hoc. Il dottor Alberto Benussi, neurologo e ricercatore all’Università degli Studi di Brescia, ha coordinato un progetto che ha vinto – insieme ad altri – il bando AGYR 2020, messo in palio da Airalzh. Il progetto sta dando risultati concreti, che aprono un nuovo fronte nella individuazione precoce della malattia, ma anche nella terapia. «Si tratta di usare con nuovi protocolli un macchinario già utilizzato in ambito neurologico, la stimolazione magnetica transcranica: una bobina posta sulla testa del paziente manda impulsi al cervello e ne registra la risposta. In questo modo si può valutare il funzionamento dei neurotrasmettitori della memoria, che nell’Alzheimer sono ridotti, e capire così se si è in presenza della malattia o di un’altra forma di demenza». Ma la stimolazione cerebrale non invasiva potrebbe essere utilissima anche nella terapia. «In questo caso si sfrutta la stimolazione a corrente alternata: attraverso degli elettrodi posti sulla testa, si ripristinano i ritmi cerebrali, che nella malattia sono alterati. In pratica, con uno stimolatore di piccole dimensioni facciamo passare una corrente a bassa intensità nelle strutture cardine della memoria e le risintonizziamo alla frequenza corretta. La memoria migliora già del 60 per cento dopo un’ora. Stiamo valutando dei protocolli di cicli di 15 giorni, con più applicazioni alla settimana».
Anche la sordità è un fattore di rischio
Il nuovo farmaco in arrivo e le diagnosi sempre più precoci e accurate sono una stampella fondamentale, ma ricordiamoci che la medicina migliore – anche per l’Alzheimer – è la prevenzione che deve scattare sempre più a monte, cioè sui fattori di rischio. «Gli studi hanno dimostrato che agire su fumo, obesità, attività fisica, diabete e perfino ipoacusia, riduce l’incidenza della malattia» conclude il professor Caffarra. «Una persona con malattie cardiovascolari, fumatrice, che fa poco movimento e magari con gli anni sviluppa sordità (che porta a isolarsi e ridurre i contatti sociali) ha un rischio più alto di ammalarsi. Chi corregge invece queste cattive abitudini, oltre ad ammalarsi di meno sembra che possa anche migliorare la qualità di vita, se già malata». Parliamo al femminile perché le donne rischiano tre volte in più di ammalarsi per motivi genetici (la protezione degli ormoni che con la menopausa decade), perché vivono più a lungo (l’età è legata alla malattia) e perché restano sole (ci sono più vedove che vedovi).