Quando la mamma di mio marito ha iniziato a perdere la memoria, ho cominciato a chiedermi chi fosse mia suocera nel momento in cui non riconosceva più il figlio: a tratti pensava di essere ancora una bambina, spesso non ricordava nemmeno il proprio nome. Era sempre la mamma di Jacques o era diventata altro? Non spettava ormai al figlio occuparsi di lei, accettare l’inversione dei ruoli, elaborare il lutto della perdita della mamma anche se sua madre era ancora in vita? Certo, non era più la stessa persona di prima, ma era pur sempre sua madre, no?
È stato quest’evento, accaduto alcuni anni fa, a convincermi pian piano della necessità di scrivere “Idda”, la storia di 2 donne che, rispecchiandosi l’una nell’altra, ritrovano (forse anche inconsapevolmente) ciò che avevano perduto nel passato. Alessandra è una giovane italiana che ha lasciato la propria terra per fuggire da un’infanzia dolorosa: è arrivata in Francia, ha deciso che l’unico modo per sopravvivere era cancellare i ricordi e, quando incontra Pierre, gli spiega che in Salento, dove è nata e cresciuta, non tornerà mai più. Annie è francese, è nata nel 1927 e, dopo aver cercato di emanciparsi diventando segretaria stenodattilografa, sposa il suo capo e mette al mondo Pierre. Quando Annie si ammala di Alzheimer e Pierre viene sovrastato dallo sconforto – no, non è vero che mamma ha l’Alzheimer, dirà un giorno ad Alessandra; la dottoressa non ha mai utilizzato questa parola, ripeterà più volte nonostante la madre abbia iniziato a confonderlo col padre e col marito, e non sia più in grado di badare a se stessa – sarà Alessandra a occuparsi di lei e a sentirsi nuovamente figlia.
Inizialmente pensa di essere lei a poter fare qualcosa per questa donna. Poi realizza che, nonostante la malattia, è proprio Annie a salvarla, costringendola non solo a fare i conti col passato, ma anche a tornare in Italia. Ma è davvero così che vanno le cose nella vita? Succede questo quando una madre si ammala? Non accade piuttosto che una figlia, di fronte alla malattia mentale o fisica del genitore, diventi all’improvviso madre della propria madre dovendo quindi rassegnarsi, con fatica e dolore, al fatto di non poter mai più ricevere perché ormai è lei a doversi occupare di tutto e dare, dare, e continuare a dare? Non è questo il dramma che vivono oggi tantissime donne, spesso lasciate sole, perché mancano le strutture adeguate, e le famiglie non sono più quelle di un tempo, e si vive più a lungo, e sembra quasi che ci sia un’epidemia di demenza senile, Alzheimer, Parkinson o qualunque altra malattia neurodegenerativa?
Quando una figlia diventa madre della propria madre, il dolore e la fatica sono enormi
Ma anche nella vita reale, e non solo in “Idda”, queste nuove relazioni affettive che si creano sono estremamente feconde. Anche semplicemente perché una madre, sebbene apparentemente non sia più capace di “dare”, continua in realtà non solo a essere la stessa persona di prima, ma anche a “dare” tantissimo amore. Certo, una madre malata è meno attenta, meno precisa, meno efficiente, meno autonoma. Ma in quel “meno” si cela forse l’essenziale della vita. I sentimenti e l’affetto. La familiarità. L’amore.
Come dirà a un certo punto del romanzo la dottoressa Brun ad Alessandra, l’unica frase che non scompare mai è “ti amo”: a lei lo ripetono spesso i suoi pazienti, anche quando dell’amore non ricordano più nulla, come se solo l’amore potesse ancora tenerli in vita. L’amore resta, anche quando l’oblio ce la mette tutta per cancellarlo, l’amore non sparisce mai. E questo è più che sufficiente per dare coerenza a ciò che, di coerente, non sembra avere molto. Tanto i conti, nella vita, non tornano mai: si balbetta e si va avanti a tentoni, talvolta si frana e non ci si rialza, talvolta si ha la chance di poter ricominciare da capo.
«Amore è stata l’ultima parola di mia madre negli ultimi istanti della sua vita»,
mi ha recentemente scritto una donna dopo aver letto “Idda”. «Non ricordava più nulla del passato tranne il suo amore per me. Lo posso testimoniare». Esattamente come io posso testimoniare che è grazie alla scrittura che ho capito davvero l’importanza del “dare”. Visto che sono i lettori e le lettrici che, leggendomi, mi restituiscono i giorni e i mesi passati a scrivere e cancellare e riscrivere. E che, testimoniando della realtà della propria vita, mi fanno capire come nel rapporto tra Annie e Alessandra c’è proprio quell’amore che resta tra una madre e una figlia anche quando la malattia sembra corrodere ogni cosa.