Qualche settimana fa, il quotidiano inglese The Guardian ha preso una decisione storica: rinunciare a tutta la pubblicità proveniente dall’industria fossile. Al plauso entusiasta da parte di alcuni è seguita l’accusa di incoerenza da parte di altri, che hanno sottolineato come quel giornale non potrebbe andare in stampa né essere distribuito senza l’industria fossile.
L’alibi di chi non fa nulla per cambiare lo status quo è che quel fare non sarebbe mai abbastanza, quindi tanto vale non farlo (e deridere chi lo fa). Liberi di biasimare chi la pensa così, resta il fatto che convincere una persona che una piccola scelta, come lasciare l’auto a casa oggi, abbia un impatto di qualche rilevanza sul futuro del Pianeta è estremamente complesso.
Ci ha provato Tom Oliver, uno studioso di ecologia, che su The Conversation ha paragonato le microazioni quotidiane al gesto di andare a votare i propri rappresentanti in Parlamento. Tutti sappiamo che il nostro voto è una goccia in un mare di milioni di altri voti, nessuno si aspetta che sia determinante, eppure consideriamo quel gesto sacro, capace di cambiare le sorti di un Paese. «Ogni scelta di acquisto, ogni viaggio che facciamo sono un voto su come trattiamo gli altri e il mondo, e anche se non ne vediamo le conseguenze immediate, i nostri voti contano» scrive Oliver. «La distruzione a cui assistiamo è il risultato di miliardi di piccoli impatti». Ecco perché «cambiare se stessi è il prerequisito per cambiare il mondo».
A quanto pare, a crederci sono soprattutto le donne. Da Greta Thunberg in Svezia ad Alexandria Ocasio-Cortez negli Usa, passando per Ursula von der Leyen in Europa, il Corriere della Sera osserva che la battaglia ambientale sembra avere un genere definito. E non solo oggi. Le pioniere, da Vandana Shiva a Wangari Maathai, confermano questa particolarità. Le tesi si moltiplicano: da chi ipotizza che siano le donne a subire le maggiori conseguenze del cambiamento climatico a chi sostiene che abbiano una maggiore sensibilità verso la famiglia e il futuro. Io non faccio ipotesi. Ho però una certezza: etichettare le battaglie per l’ambiente come una “cosa da donne” è il rischio peggiore che corriamo.