In questi giorni gli studenti di tutto il mondo stanno partecipando al terzo “Sciopero globale per il clima” del movimento Fridays for Future. Greta Thunberg è riuscita a richiamare in piazza milioni di ragazzi, che già il 15 marzo e il 24 maggio scorsi hanno gridato ai leader politici i loro timori per il futuro: «Noi sappiamo che il cambiamento climatico è una realtà, e voi? Cosa state facendo?». Se gli studenti sono il fulcro delle manifestazioni, mostrando una buona capacità organizzativa e una coscienza ambientalista più spiccata di quella degli adulti, la scuola dov’è? Come li aiuta?
Il 5 dicembre 2018 è stato firmato un protocollo d’intesa tra il ministero dell’Istruzione e quello dell’Ambiente per «elaborare un Piano nazionale per l’Educazione ambientale nelle scuole italiane per sensibilizzare bambini e ragazzi, fin da giovanissimi, su temi come la sostenibilità e la qualità dello sviluppo». Con l’intento, si legge nel documento, di rendere strutturali i percorsi di formazione sia per gli studenti sia per i docenti.
I progetti didattici in classe sono frenati da ostacoli burocratici
L’elemento imprescindibile per l’efficacia di un’attività di educazione ambientale è “fare”. Solo le parole, le pagine di un libro, il documentario visto in classe, l’incontro sporadico con l’esperto non bastano. La scienza che studia il climate change, oltre a fisica, chimica, biologia, botanica, geologia, zoologia, ormai raduna sotto lo stesso ombrello anche statistica, intelligenza artificiale, sociologia, economia, antropologia, giurisprudenza… I programmi ministeriali che continuano a proporre ai ragazzi percorsi rigidamente separati sono di fatto delle gabbie.
Sono un giornalista scientifico da 30 anni e da più di 20 organizzo e gestisco in prima persona progetti didattici nelle scuole. Purtroppo riscontro spesso difficoltà operative: sulla carta sono tutti d’accordo, ma non di rado le attività di educazione ambientale e di didattica della scienza vengono poi ostacolate quando si arriva in classe. Impossibile accendere un fornellino a gas in aula, maneggiare alcuni reagenti per toccare con mano la chimica, far salire i ragazzi sul tetto terrazzato per studiarne l’esposizione solare in vista di un pannello fotovoltaico. L’interpretazione alla lettera delle normative di sicurezza (e la mancanza di un laboratorio di scienze attrezzato e autorizzato) diventano il perfetto alibi per “non fare”.
Un paio di anni fa, in una scuola media, per spiegare come illuminazione efficiente significasse automaticamente risparmio energetico e miglioramento della luce, avevo in mente di smontare un portalampade a soffitto e di installare diversi tipi di lampade, per poi misurare l’effetto con un luxmetro e un wattmetro che avevo portato. Sono stato pesantemente redarguito dall’insegnante, perché non avevo l’autorizzazione a smontare un portalampade e perché non potevo installare apparecchiature elettriche (ovvero, una lampadina Led) non autorizzate dal tecnico del Comune.
Le regole vanno lette, interpretate, in certi casi vanno cambiate: perché il fare con le proprie mani, il mettersi in gioco è lo spartiacque tra un’attività di educazione ambientale che funziona davvero e una che spruzza solo un po’ di disordinate informazioni. Non si impara ad andare in bicicletta o ad arrampicarsi su un albero senza mettere in conto di sbucciarsi le ginocchia.
Nell’educazione ambientale la parola chiave è “fare”
Le attività di educazione ambientale hanno bisogno di esperienzialità, di sbagliare e tentare ancora. E questo i ragazzi lo capiscono, sono “più avanti” degli adulti. Ne ho avuto dimostrazione durante una gita scolastica scientifica organizzata con l’associazione ToScienceCamp. La scorsa primavera con 2 classi di quinta elementare abbiamo passato 4 giorni in riva al mare per capire l’inquinamento da plastica. Attraverso laboratori allestiti nella struttura che ci ospitava e attività in spiaggia e in acqua abbiamo ripercorso passo dopo passo l’attività degli scienziati che studiano il problema, ripetendo in modo semplificato i veri protocolli di ricerca, illustrati dagli scienziati stessi ai bambini.
ornati in classe, gli alunni si sono trovati a disagio: «Come possiamo accettare di trovare in mensa piatti, bicchieri e posate di plastica, dopo aver visto i danni che provocano»? Così hanno proposto loro una soluzione, accettata dai genitori e dalle maestre: ciascuno avrebbe portato a scuola stoviglie di plastica dura (quelle da campeggio), che dopo pranzo avrebbe lavato e riportato a casa. Apriti cielo! «Non si può perché il capitolato di appalto della mensa non lo prevede» è stata la risposta della dirigente. Dopo molte trattative (e un documento di manleva dai genitori che si facevano carico dell’igiene del piatto del figli), gli alunni hanno ottenuto di non usare la plastica in mensa. Questo è quello che devono vivere i bambini e i ragazzi: azioni concrete in difesa dell’ambiente. A noi adulti, genitori e insegnanti, tocca il compito di fargliele vivere. Per salvaguardare il loro futuro.
L’AVVENTURA “GREEN” DI GERONIMO STILTON
Cambiare le nostre abitudini quotidiane può dare una “zampa” al Pianeta. Parola di Geronimo Stilton. Il topo-scrittore più amato dai ragazzi è protagonista di Tutti su per Terra: una grande iniziativa di educazione ambientale realizzata in collaborazione con il WWF e rivolta a bambini, genitori e insegnanti. Cliccando su www.tuttisuperterra.it, si possono scaricare gratuitamente materiali didattici da usare in classe e attività da fare a casa per imparare a rispettare la natura e scoprire come prendersene cura ogni giorno con piccoli gesti.
Sul sito è disponibile gratis per gli iscritti Il piccolo libro della Terra (Piemme), la nuova avventura di Stilton che arriverà in libreria l’8 ottobre. E non è finita: Geronimo sta preparando una sorpresa per i suoi fan durante la Settimana della Terra, dal 18 al 24 novembre.