È difficile definire un sentimento complesso come l’ambizione. Non mi piacciono le prime risposte selezionate da Google, una fra tutte: «Desiderio assiduo ed egocentrico di affermarsi e distinguersi» (da Oxford Languages). Preferisco una di quelle che propone il sito dell’Enciclopedia Treccani: «Desiderio vivo». La sua etimologia, infatti, non lascia dubbi: deriva dal latino ambitio, un vocabolo che unisce il participio passato del verbo eo (itum), «andare», al termine ambi, «tutte le direzioni». Cosa c’è di più vivo del desiderio di andare ovunque?
Non mi sorprende che oggi sia associata all’egoismo e sia vista negativamente. In un mondo dove a guidarci è l’algoritmo e per fare successo bisogna omologarsi, la spinta a distinguersi è una sfida al sistema: ecco perché oggi sembra non ci sia più posto per l’ambizione. Eppure, come ci insegnano i nuovi modelli offerti dalla GenZ, è ancora necessaria, forse l’unico «desiderio vivo» che ci resta. Ma, come tutto il resto, va un po’ ripensata.
La nuova ambizione, ode alla gavetta
«Ho deciso di rinunciare all’opportunità di partecipare all’Eurovision Song Contest per continuare la mia gavetta, con la consapevolezza che è una di quelle cose che capitano forse una sola volta nella vita», ha scritto qualche settimana fa Olly (classe 2001). Dopo aver vinto Sanremo, gli è stato proposto di presentare il suo brano sul palco internazionale dell’Eurovision, ma il cantante ha preferito declinare. «Questa decisione è il mio modo di ascoltare me stesso».
Per un cantante italiano, come hanno dimostrato i Måneskin, un festival di tale importanza può essere l’occasione per ottenere un riconoscimento maggiore. Ma può essere anche un percorso intenso, che se non si è pronti rischia di demolire: ecco perché nella scelta di Olly, additata da molti come «poco matura», io ho visto qualcosa di diverso.
A colpirmi è stato proprio il riferimento alla gavetta, il percorso che porta gli umili a diventare grandi passando di grado in grado dopo essersi meritati (e sudati) ogni step. È un termine nato nel mondo militare, ma che oggi utilizziamo comunemente, e spesso proprio per parlare della nostra generazione. Questa sorta di “fase zero” della carriera lavorativa è un percorso lungo e difficile, ma che – ci insegnano – è necessario per conoscersi e mettersi in gioco.
Quando si parla di fenomeni tipicamente GenZ nel mondo del lavoro (come il job hopping, che ci porta a saltare da un lavoro all’altro rimanendo solo pochi mesi), spesso si invoca tra le principali cause proprio una mancanza di valorizzazione della gavetta. Non è quindi, quella di Olly, una nuova, sana e matura ambizione?
Ambizione versus arroganza
A pochi giorni da questa dichiarazione, a far parlare è stato invece Timothée Chalamet, ma per i motivi opposti. Classe 1995, Chalamet ha cominciato a recitare a 19 anni e dal 2014 ha collezionato 29 film e due nomination agli Oscar (di cui la prima, nel 2018, come più giovane esordiente nella storia).
Ritirando il suo primo SAG Award per il ruolo di Bob Dylan nel biopic A complete unknown, ha detto: «So che per essere di classe dovrei minimizzare lo sforzo che ho fatto per questo ruolo, ma la verità è che ci sono voluti più di cinque anni e ho dato tutto quello che avevo.
Sono davvero sulla strada della gloria. So che non si dovrebbe dire, ma io voglio essere uno dei grandi. Sono ispirato dai più grandi, da Viola Davis a Michael Jordan, e voglio essere tra loro».
Chalamet è stato accusato di aver esagerato, di essere stato arrogante. Una vera sorpresa se si pensa che pochi anni fa – intervistato da Fabio Fazio a Che tempo che fa – aveva risposto in maniera completamente opposta, ottenendo un fiume di applausi: «Non avevo mai pensato a quanti film ho fatto… Ma alla fine sono state solo piccole apparizioni!».
L’umiltà va giustamente premiata, ma dove sta l’arroganza nel rivendicare i propri traguardi? Quello che mi sembra è che non sia concesso desiderare la gloria, il potere. In una società che si vanta di aver superato molti tabù, ancora non è “di classe” ammettere di aver lavorato, aver lottato, essersi impegnati per raggiungere qualcosa.
Ambizione ed egoismo: abbiamo un problema
In Feminist Feelings, newsletter dedicata al valore politico delle emozioni, anche la giornalista Elisabetta Moro ha parlato di come l’ambizione – soprattutto per le donne – sia ancora vista come una caratteristica negativa.
«Dire “una donna ambiziosa” ha in sé qualcosa di negativo, perché porta il seme dell’egoismo. Nessuna ammette “sono ambiziosa”, se non come provocazione, anche se sa di esserlo», scrive Moro. «Eppure spesso l’ambizione mi sembra importante, un processo di costruzione che ha a che fare con l’aver trovato, a fatica, la forza di dire no a certe cose e sì ad altre. Che cos’è se non ricavarsi uno spazio per essere e non dipendere, per sperimentare, scoprirsi brave magari, nutrirci di quello che ci piace?».
Il problema che abbiamo con l’ambizione non è una novità, basti pensare alle fiabe che vedono solo principesse salire sul trono “per caso”, senza mai veramente desiderarlo. L’ambizione viene sempre punita: se vuoi andare al ballo, puoi restare solo fino a mezzanotte; se vuoi le gambe, devi perdere la voce. Ma se oggi è quasi proibito essere ambiziosi è anche perché il raggiungimento della grandezza, per chi ancora ha una vita davanti, è diventato un sogno impossibile.
GenZ e lavoro: la nuova (silenziosa) ambizione
«Il mercato del lavoro oggi offre molte sfide e non permette ai giovani – a fronte dello stesso impegno che si metteva in passato – di ottenere gli stessi riconoscimenti», spiega Marianna Poletti, Content creator ed Employer/branding consultant. Questo panorama ci porta per forza a inventare nuove risposte, per non cedere alla rassegnazione.
Tra il 2021 e il 2022, infatti, si è parlato del quiet quitting come di una nuova pandemia: un fenomeno che ha visto quasi 26.000 lavoratori in tutto il mondo cominciare a fare sempre di meno, uscire prima dagli uffici, entrare dopo, non cercare più di avanzare o rifiutare proposte. E nel 2022 la situazione è ulteriormente peggiorata, con un picco di 2 milioni di persone (soprattutto giovanissimi) che hanno abbandonato i loro posti di lavoro.
Ma è emerso anche un nuovo fenomeno, la silent ambition, che vede come obiettivo da raggiungere non più il ruolo di comando né la ricchezza, ma la pura e semplice felicità. «Il lavoro è una parte della vita, ma non deve per forza essere la più importante», continua l’esperta. «I giovani oggi vogliono ottenere uno stile di vita, non una carriera».
GenZ e ambizione: vogliamo tutto
Se le nostre mamme volevano “avere tutto” (ovvero lavoro e carriera), noi facciamo un passo indietro, che forse è in avanti. Vogliamo essere felici, e poter scegliere in che modo ottenere questo traguardo.
Non significa che lo spazio per l’ambizione sul lavoro non ci sia più, a scomparire è piuttosto la cieca ricerca dell’eccellenza a discapito della salute mentale. «I ragazzi oggi sono molto più consapevoli, anche grazie al ruolo che ha la terapia», continua Marianna, «e questo permette loro di capire a che punto sono del loro percorso, dove vogliono arrivare e se si sentono pronti per fare step successivi».
È così che Olly e Timothée offrono nuovi modelli: sono consapevoli dei passi che fanno, felici quando li raggiungono, sicuri quando richiedono di potersi prendere del tempo per arrivare pronti ad ogni fase. Una rivoluzione che sta avvenendo in tutti i campi, persino nello sport, come hanno dimostrato Benedetta Pilato e Thomas Ceccon accettando con serenità i quarti posti alle olimpiadi dello scorso anno.
È forse emblematico che all’Eurovision, nonostante la rinuncia di Olly, l’Italia andrà comunque. Sul palco ci sarà Lucio Corsi, e canterà: «Volevo essere un duro, che non gli importa del futuro». Il nuovo inno dei ragazzi ambiziosi, a cui del futuro importa eccome, ma che non hanno nessuna voglia di farsi «duri» per affrontarlo.