La prima volta che ho provato invidia è stato per una donna.
No, non è vero. È stato per un uomo. Un collega del quotidiano dove lavoravo a 18 anni che spedivano nel mio paese quando succedeva un brutto fatto di cronaca nera, perché ritenevano che io non lo potessi seguire. L’ho odiato. E ricordo di avergli destinato ogni sorta di dileggio, forse anche qualche rito vodoo, assieme alle mie amiche, per esorcizzare la mia frustrazione. Eppure c’era una sorta di ineluttabilità nella suprema ingiustizia che subivo. Ecco perché non ho mai catalogato quel sentimento come invidia, bensì come istinto di ribellione verso il normale ordine delle cose. Quell’episodio è entrato nella mia storia personale come il momento: “Se tu non credi in me, io ci dovrò credere anche per te”.
Il primo atto di invidia che registro come tale, invece, fu ai danni di una donna. Che si ritrovò a stringere tra le mani un contratto di assunzione che poteva essere mio, mentre io mi arrabattavo ancora nella precarietà. L’invidia iniziò a rodermi e ad abbrutirmi. Non mi migliorava come l’altra. Mi rendeva peggiore. Mi ritrovai a pensare e a dire di lei cose che non mi piacevano. Non c’era l’alibi di un ordine superiore da stravolgere. Non rivolsi a me l’energia che mi ribolliva dentro, per capire in cosa avevo sbagliato o in cosa potessi migliorare, ma attribuii a quella competizione armi illecite che evidentemente non possedevo.
Quando tornai in me, mi vergognai di quel sentimento così basso e mi promisi che non l’avrei mai più provato, né tantomeno confessato. Ci ho messo anni di letture e riflessioni per perdonarmelo, per capire che anche lì, come nel primo caso, mi muovevo dentro uno schema più grande. Quello di una società che sulla competizione fra le donne per ottenere i favori di un uomo o di un capo (a seconda del periodo storico) ha sempre trovato lo strumento migliore per ricondurci all’ordine e svilire ogni possibilità di cambiamento, che poteva nascere solo dall’alleanza tra noi.
Così come c’è voluto del tempo per scoprire, empiricamente (perché
la narrazione va in tutt’altra direzione), che lavorare assieme alle donne è l’occasione più straordinaria che mi sia mai capitata. È solo grazie a donne che hanno visto in me qualcosa di speciale, e mi hanno fatto dono dell’autonomia che alla mia età non mi ero ancora meritata, che sono riuscita a emergere. Ed è soprattutto grazie a un team femminile che mi muovo ogni giorno in un ambiente di lavoro che non è un campo di battaglia per l’affermazione del singolo (e gli uomini di redazione non se ne abbiano a male, visto che sono la prova di come gli archetipi “maschile” e “femminile” stiano stretti agli individui).
Da anni, per me, è iniziato il tempo della restituzione. Ciò che le altre donne hanno fatto per me, io devo farlo per loro. Fosse anche un consiglio, fosse solo l’impegno ad aprire un varco da dove lasciar fluire il loro potenziale. Non è istintivo. Non è immediato. Ma lo diventa non appena ci fermiamo un attimo a rileggere la storia di come siamo arrivate al punto in cui siamo.
Amiche è una parola grossa. Ma l’amicizia a cui abbiamo dedicato il numero di Donna Moderna in edicola questa settimana non è solo il filo d’acciaio che ci lega a poche persone speciali, bensì l’impegno consapevole a fare rete per divenire più forti e più felici.