È successo di nuovo, poche settimane fa, in provincia di Arezzo: una bambina di 18 mesi dimenticata nell’auto dalla mamma e ritrovata morta dopo alcune ore. Un copione assurdo e già visto, che ogni volta scatena una domanda: com’è possibile che succeda? «Purtroppo può capitare a tutti» dice Elisa Ciaramelli, ricercatrice e professoressa associata di Neuropsicologia e neuroscienze affettive e cognitive all’Università di Bologna. «Si tratta di un fallimento cognitivo che coinvolge la memoria e che, per quanto terribile e all’apparenza inconcepibile, è possibile da spiegare dal punto di vista scientifico. Ma dobbiamo fare una premessa».
Quale?
«La memoria non è solo la funzione che serve per ricordare in modo consapevole gli eventi del passato, come un viaggio o una vecchia ricetta di cucina. Esistono anche processi inconsapevoli, di cui non ci rendiamo conto: uno di questi è la memoria procedurale, che spesso è coinvolta in episodi come quello di cui parliamo».
Di che cosa si tratta esattamente?
«Di una funzione primitiva, che chiama in causa il cervelletto e i gangli della base e che serve per memorizzare le procedure: azioni ripetute che si svolgono sempre nello stesso modo, con passaggi concatenati in modo rigido, come andare in bicicletta o guidare l’auto. Sono gesti che eseguiamo senza pensarci, con il pilota automatico. Un bene, perché se dovessimo concentrarci su tutto ciò che facciamo, non saremmo così multitasking».
Qual è il problema allora?
«Questo processo è conveniente, ma ha un prezzo: la rigidità. Basta che la routine sia stravolta da un imprevisto, anche banale, che la memoria procedurale non è più sufficiente. Facciamo un esempio pratico. Se è sempre lo stesso genitore che si fa carico di portare il piccolo a scuola, ma quella mattina ha un’incombenza straordinaria, per esempio fare la spesa, deve modificare la routine, ovvero inserire il contrattempo senza pregiudicare gli altri passaggi».
A questo punto che cosa accade?
«Il cambiamento sconvolge la consuetudine: scombina i passaggi e prepara il terreno per l’amnesia. Quando la procedura non è più la stessa, perché stavolta la persona deve occuparsi sia del piccolo sia della spesa, il pilota automatico non basta più. Serve l’intervento di un’altra funzione, quella della memoria prospettica: la mente deve intervenire in modo consapevole, ragionato, per prendere decisioni che si adattino all’imprevisto. Per intenderci: dopo essere stata al supermercato, la mamma deve pensare a un percorso diverso per fermarsi all’asilo».
Non sembra difficile.
«Invece è molto faticoso. Si deve creare una nuova traccia di memoria, che si imponga su quella automatica e che serve a ricordare un’intenzione. Per riuscirci, bisogna attivare due aree cerebrali molto sofisticate: l’ippocampo, che stabilisce che cosa fare, e la corteccia prefrontale, che suggerisce quando farlo».
Come mai, a volte, il passaggio non avviene?
«Perché nel cervello si crea una competizione tra un sistema a basso costo (quello della memoria procedurale) e uno più evoluto e dispendioso (quello della memoria prospettica). Se il soggetto è stanco, come accade ai neo genitori, vince il primo. Perché mancano le risorse mentali per far suonare il campanellino che dice: “Attenzione, la procedura va cambiata!”».
È solo la stanchezza a favorire la défaillance?
«No, ci sono altri fattori che possono giocare a sfavore, come l’invecchiamento, la depressione e soprattutto lo stress. Quando siamo sotto pressione, infatti, aumenta la produzione di cortisolo, un ormone che ha un’azione deleteria proprio sulle aree cerebrali coinvolte nella memoria prospettica. Inoltre, ci perdiamo di più nel “mind wandering”, un fenomeno che noi ricercatori abbiamo iniziato a studiare di recente».
Sarebbe a dire?
«È ciò che facciamo tutti noi quando la mente vaga per pensieri scollegati a quello che stiamo facendo. Succede spesso durante le azioni di routine, in particolare le più noiose. Corriamo e nel frattempo pianifichiamo la vacanza. Guidiamo verso casa e intanto ripensiamo alla discussione con il capoufficio. E così ci dimentichiamo di comprare il pane».
Perché siamo distratti.
«Esatto. Ma attenzione: il “mind wandering” è utilissimo. Le ricerche dimostrano che lo usiamo per pianificare il futuro, regolare le emozioni e coltivare la creatività. Anch’esso però ha un costo: i pensieri che affollano la mente sono così vividi che distolgono dal presente».
Come quando lasciamo il gas acceso.
«O la porta di casa aperta. In realtà questi sono cali di attenzione più che insuccessi della memoria, ma le due funzioni sono strettamente correlate. Infatti anch’essi avvengono più spesso quando siamo a corto di sonno o sotto pressione».
Possiamo prevenire questi fallimenti cognitivi?
«Sì, per esempio affidandoci a stimoli esterni. Un genitore che accompagna il figlio all’asilo deve appoggiare le chiavi dell’ufficio o la borsa nel sedile di fianco al seggiolino. Se per qualche motivo tira dritto verso il lavoro, al momento di scendere vedrà il piccolo ancora al suo posto».
Diciamo la verità: continueremo a soffrire di amnesie.
«Sa qual è il problema? Esistono memotecniche per proteggersi dalle dimenticanze, ma le persone non ascoltano i suggerimenti della scienza. Ognuno ha il suo trucco e non lo molla».
Il suo qual è?
«Segno le cose importanti sull’agenda. Poi non la guardo più: averle scritte mi basta».
Perché la mamma di Arezzo non ha colpe
Come ha fatto a non capire quello che stava succedendo prima che fosse troppo tardi? È questa una delle accuse rivolte sui social alla mamma toscana che un mese fa ha dimenticato sua figlia in macchina causandone la morte. «Non se ne è resa conto per un processo che si è messo in moto nel cervello e che ha provocato un’amnesia. Lei ha proseguito in modo quasi automatico la routine di tutti i giorni» spiega l’esperta. «E se anche durante il lavoro si è chiesta: “Chissà che cosa sta facendo la mia bambina?”, probabilmente la risposta è stata: “Gioca” o “Fa il riposino”. Nella sua mente non c’era traccia dell’abbandono della piccola».
Per ricordare un’informazione importante
Foglio di carta o smartphone? Per gli esperti non ci sono dubbi. «Il modo migliore per prendere un appunto (e ricordarlo), è impugnare la penna perché ogni persona organizza le informazioni e le visualizza a livello spaziale in modo soggettivo» dice la professoressa Elisa Ciaramelli. «A differenza dello schermo, dove ciò che scriviamo resta puramente verbale, sul foglio possiamo rappresentare le annotazioni secondo lo stile spaziale più congeniale alla nostra mente. E così le imprimiamo meglio nella memoria».