Dovrebbe essere il tempo delle grandi passioni, delle farfalle nello stomaco, dei baci rubati sotto casa. Il tempo fatto di risate e imbarazzi, di prime volte e timidezze, di sguardi che si incrociano, WhatsApp che non arrivano e messaggi vocali infiniti. Invece non è così.
La fatica di innamorarsi
Ed è subito chiaro parlando con Barbara, 21 anni, occhi grandi un po’ spauriti: «Ho avuto solo una relazione, l’anno scorso. Ma è durata poco. Non era il tipo giusto» racconta, facendoci capire che, sì, certo, le dispiace che sia finita, però neanche troppo: «Non voglio mica sembrare una “sottona”, una di quelle che piangono se vengono lasciate» aggiunge. Quello che le dispiace di più, in realtà, è un’altra cosa: far fatica a innamorarsi, non riuscire a trovare il ragazzo con cui stare bene.
L’amore per i ragazzi di oggi
Dietro a questo desiderio, a quest’impressione di perdersi qualcosa di importante, che percepiamo in Barbara, ma anche in molti suoi coetanei, si nascondono tante piccole tessere che compongono quel mosaico complesso che è l’amore per i ragazzi di oggi. E qui ci viene in aiuto Martina, con la grazia delle creature acerbe e il disorientamento di chi si sorprende allo specchio. Quando le chiediamo se abbia mai provato le farfalle nello stomaco, risponde: «Farfalle nello stomaco? Roba da vecchi. Al massimo noi siamo un po’ presi».
Il primo segnale di come i ragazzi vivono oggi l’amore viene da due parole che hanno usato Barbara e Martina: «relazioni» e quel «po’», che mette una certa distanza, che abbassa la temperatura. «Il loro innamorarsi non è quello che intendiamo noi. Per loro ci sono le relazioni, non le storie. Perché la storia implica una certa durata, un percorso, un’evoluzione, un coinvolgimento» spiega Simona Rivolta, psicoterapeuta che da anni lavora con gli adolescenti e i giovani adulti. «Il termine relazioni, invece, è astratto, più incerto, tiepido. E il tepore, dovuto anche al filtro dei social che ha “anestetizzato” le relazioni, è la temperatura tipica dei ragazzi di oggi, soprattutto quando si parla di amore. Più che passione, loro cercano rassicurazione». Di che cosa? «Del valore di sé, perché così possono essere ammirati e sentirsi accettabili» continua la psicoterapeuta.
L’amore serve per posizionarsi
Ecco un’altra tessera del mosaico che stiamo cercando di raccontare: per i ragazzi oggi avere un fidanzato è importante, sì, ma soprattutto per essere “presentabili”. Anche in questo caso le parole di Martina ci sono di aiuto: «Avere un “tipo” è un po’ come avere un “buff” ai videogiochi (avere più punti, ndr). È obbligatorio per essere apprezzati, così come bisogna essere vestiti in un certo modo, andare in vacanza in un determinato posto». Lo spiega bene anche la scrittrice Jennifer Guerra, 27 anni, che sull’amore e sulla sua crisi ha scritto l’interessante saggio Il capitale amoroso (Bompiani). «Nella società attuale l’amore serve per posizionarsi. Per questo arriviamo a considerarlo uno dei tasselli fondamentali della realizzazione personale e finiamo poi con l’accettare relazioni che non sono quelle che vogliamo».
Un amore speciale ma anche simile a sé
In questa corsa verso l’amore c’è però un’ambivalenza di fondo. «Da un lato rimane il desiderio di un altro speciale, perché c’è un forte bisogno di eccezionalità e perché l’amore stesso ci viene presentato come un’esperienza straordinaria, non come qualcosa che si coltiva nel quotidiano» spiega Guerra. Dall’altro i ragazzi cercano qualcosa di simile, cercano un po’ loro stessi, ed è (anche) questo il motivo per cui la temperatura emotiva si abbassa. «L’altro per definizione non è prevedibile. Si va più a caccia dell’uguale che del diverso» aggiunge Rivolta. «E ciò va di pari passo con la necessità di soffrire meno, con la paura di gestire l’incertezza. L’idea che la nostra società ha passato loro è semplice: ciò che ti assomiglia ti farà stare bene». In questa scelta del simile si ha l’illusione che non ci saranno sorprese, ma non ci si rende conto che queste sorprese sono anche il bello, la ricchezza di una storia (noi continuiamo a chiamarla così).
L’amore richiede impegno
E qui entra in gioco un altro elemento importante. Per trovare la propria strada, così come la propria anima gemella, bisogna fare un po’ di fatica, prevedere un impegno. «Cosa non facile per i ragazzi, perché noi genitori in primis abbiamo sempre cercato di spianare la strada, di attutire il dolore. E perché lo stesso scegliere per loro è faticoso, significa rinunciare ad altro, ridurre lo spettro dei possibili futuri» spiega Rivolta. Sono abituati a pensare che l’amore sia qualcosa che si possiede e non qualcosa che si costruisce, che si dà. Perdendo di vista così, come diceva lo psicologo Erich Fromm, autore del cult L’arte di amare, che l’amore è un sentimento attivo, non passivo. Una conquista, non una resa. Quest’affermazione ha un corollario fondamentale: amare è impegnativo, stancante, faticoso. «Credo che si debba intendere l’amore come cura dei bisogni degli altri, farsi carico delle necessità di chi amiamo, anche quando sono diverse dalle nostre» aggiunge Jennifer Guerra. «E il bello sarebbe riuscire a vivere l’amore così, come capacità trasformativa e generativa, non come requisito per essere accettati. Perché amare ci dà la possibilità di immedesimarci in un’altra persona».
L’amore richiede il “noi”
C’è un’immagine bellissima che prendiamo in prestito dal filosofo Alain Badiou: l’amore non ci innalza verso l’alto, non ci degrada, ma ci sposta, ci fa vedere il mondo da un altro punto di vista. Proprio quel punto di vista che i ragazzi fanno fatica a trovare. «In una società dove vige il primato del sé e l’esaltazione della libertà, è difficile saper dire “noi” e andare incontro all’altro» conclude la psicoterapeuta Simona Rivolta. E Barbara ce lo conferma, a modo suo: «Stavo con il mio ragazzo, che abitava a Napoli. Dovevo scegliere dove fare il master. Potevo andare lì, da lui, mi avevano preso e i miei genitori erano d’accordo. Ma ho preferito restare a Roma. Per dimostrare che sono autonoma, libera, che non ho bisogno di nessuno». In realtà anche lei ha bisogno (e voglia) di quel batticuore che i ragazzi cercano ma non trovano. Non perché non ne siano capaci, ma perché l’amore, come dice Jennifer Guerra, non è qualcosa di privato, bensì un continuo relazionarsi con il sistema di valori in cui siamo immersi. Valori nuovi rispetto al passato, ancora in via di definizione.
gIANMARIA
I giovani hanno fame d’amore. Ma di che cosa hanno fame, concretamente, cos’è l’amore per i giovani? Anzi, immaginando un sorriso sul volto dei più grandi a questa domanda, chiederei prima ancora, rivolgendomi anche a loro: cos’è l’amore? E chi lo sa! È una domanda comune, ma non è mai stata trovata una risposta che andasse bene per tutti, ho anche cercato risposte dai grandi filosofi, da Aristotele a Kant, e si parla di stimoli, mancanze, affetti, eros e anima… E niente! Io speravo in qualcosa di più tangibile come un sasso, un pene, uno spicchio d’aglio, qualcosa di cui poter dire: «Ecco, è questo l’amore, è questo di cui ho fame», ma sembra non sia così. Eppure lo conosciamo, cominciamo ad averci a che fare da appena nati, poi cominciamo a sentirlo e riconoscerlo, in seguito ci facciamo stringere, lo mangiamo, lo alimentiamo e lo respiriamo. Penso che proprio nella giovinezza ci si accorga che è la cosa più preziosa che c’è e che possiamo avere. Penso sia come una droga, ne vogliamo sempre e più cresciamo più adottiamo strategie e tattiche affinate per scovarlo, per viverlo e custodirlo nel tempo. Noi giovani ci ribelliamo ai nostri genitori, sbagliamo, rompiamo cose pur di trovarlo e tutto questo è splendido, sano. Credo sia così ma, se non lo fosse, allora vado sul sicuro e dico che cos’è l’amore per me. L’amore è tutto. Per me l’amore è tutto, è ovunque, mi avvolge e mi tiene in vita. È il tempo che impiego a costruire, la persona che non mi fa sentire solo. È ciò che avrò sempre voglia di cantare e sempre voglia di ascoltare. Tutto ciò che facciamo bene, almeno per noi, siamo mandati dall’amore a farlo, io la vedo cosi.
Giulia Muscatelli
P. ha un nuovo fidanzato, da pochissimo, non vuole neppure che lo definisca così. Stanno insieme da quattro mesi, non è una relazione, è l’aspettativa di una relazione, quindi una relazione ai suoi primi tempi. Oggi P. ha un dubbio che non l’ha fatta dormire e ha aspettato di vedermi per capire come comportarsi. «Voglio postare su Instagram un carosello di questi ultimi giorni di vacanza e non so se mettere anche la foto di lui» mi dice. Chiedo di mostrarmi l’immagine; vedo la schiena di un giovane uomo che sta per affrontare la scaletta che lo porterà all’aereo. «P. ma non si vede la faccia! Che problemi ti fai?». E qui ci trasformiamo in Marzullo ma anche un po’ in Sartre. «Se lo metto su Instagram» dice P. «e lo taggo, significa che stiamo insieme, e forse non è ancora il momento di dirlo pubblicamente. Ma se non lo metto, lo escludo da questi giorni, e non è giusto, perché è stato proprio lui a regalarmi il viaggio a Parigi!». Rimaniamo in silenzio, il dilemma è complesso. Da chiederci se presentarlo alla mamma, siamo passate a domandarci se presentarlo a Mark Zuckerberg. È Instagram, per la mia generazione, a ufficializzare i rapporti? I social fanno parte del nostro quotidiano e se siamo persone che lì sopra condividono il cappuccino, allora, probabilmente, ci sentiamo costrette a condividere anche l’amore. E non per ostentarlo e dire al mondo quanto siamo felici, ma per fissarlo nello spazio in cui passiamo gran parte del nostro tempo, per aggiungere un capitolo fondamentale alla narrazione che facciamo di noi stessi. Posto quindi esisto, amo quindi posto. Qualcuno rimarrà indignato da questa formula e qualcun altro controllerà quante foto ha messo insieme alla fidanzata. Siamo diventati sciocchi? Non credo, siamo l’equivalente della domenica mattina a messa, la famiglia unita, l’abito buono e la passeggiata nel centro del paese. P. quel pomeriggio posta la foto del ragazzo di spalle e lui mette like, poi commenta con un cuore: tutto è bene quel che finisce su Instagram.
Carolina Cavalli
Se potessi esprimere tre desideri per me, o per un’amica o per chiunque, il terzo sarebbe quello di sentirsi amata almeno una volta nella vita. Non so se tutti proviamo l’amore nello stesso modo, perché non sono mai stata un’altra persona, però, quando sento l’amore su di me, mi pare una sensazione così umana e istintiva che credo davvero sia universale come la rabbia o la paura ma senza rabbia e senza paura. E se l’amore può essere in qualsiasi forma, può essere anche in forma flessibile, in forma monoporzione, in forma temporanea, come il resto che c’è intorno. C’è un mondo liquido, l’altro virtuale, non si sa bene cosa devono fare i sentimenti; non hanno molta scelta comunque, o si adattano o resistono. Allora mi chiedo se l’amore più libero sia quello assoluto o quello che vive nel suo tempo. Mi immagino che alcuni miei coetanei – forse parlo solo per me, non lo so – abbiano l’impressione di non aver sviluppato gli incastri per accogliere l’amore fisso e duraturo. Tipo un puzzle costruito male, costruito da qualcuno distratto a pensare al resto appunto, a Instagram o alla nostalgia, a mille robe da fare, la doccia e arrivare in orario, o almeno non troppo in ritardo, forse era già stanco, o l’avevano pagato talmente poco che ci ha dedicato meno impegno possibile; se le cose che funzionano sono efficaci, o gridate, o violente, avrà pensato che l’amore senza tempo fosse la cosa più inutile e sonnolenta a cui dedicarsi. Resta l’amore nelle scatolette, a durata, in serata, che non capisco se ci lascia addosso ancora più bisogno d’amore, gira intorno a se stesso come una roba spaccata, cerchiamo di appagarlo nei posti di cui abbiamo sentito parlare, portiamo in giro i segni e i sintomi di questa privazione e li distribuiamo con pazienza, come a sedarci, così che per fortuna ci sono immagini, proiezioni, ossitocina. Un bisogno d’amore che in effetti si concentra più sul bisogno che sull’amore. Sul bisogno che è proprio ed egocentrico, più che sull’amore che è condiviso. Resta un’emozione, perde completamente il legame: erano indissolubili? Per natura o per tradizione? Forse per scelta e basta.
Jonathan Bazzi
Sono stato un adolescente confuso: troppi interessi, hobby e passioni. Alla domanda «Che cosa vuoi fare da grande?», ho sempre dato risposte diverse. Cantautore, pittore, professore di filosofia, medico, giornalista, tatuatore, astrologo, insegnante di yoga. Impossibile scegliere, e quindi rinunciare a tutte le altre possibilità che una vita ha di fronte. Ma c’è una cosa che è sempre rimasta costante nel mio turbinare affannato e disperso, nel mio immaginarmi e provare-a-essere, e si tratta della mia incandescente voglia di essere in due. Non andava e non va di moda dirlo, specie da adulti, ma condividere la vita è stata forse la mia sola unica vocazione. C’è voluto un po’ per prendere le misure, trovare la persona giusta, che per me significa semplicemente la persona, poi è successo. In questo periodo in cui, spesso a ragione, si stigmatizza la dipendenza affettiva, io rivendico il mio essere totalmente dipendente dagli amori della mia vita: Marius, il mio ragazzo, e i nostri due gatti. Viviamo insieme da quasi dieci anni, e ormai pensare a me significa pensare a loro. Ho scoperto infatti che il sé è capace di espansione, si allarga fino a incorporare gli esseri che ci stanno a cuore. Mi affascina sempre di più l’amore che dura: io e il mio ragazzo abbiamo attraversato momenti complicati e anche dolorosi, ma è come se un punto luminoso, quel punto luminoso dell’inizio, fosse rimasto inalterato durante tutti questi anni di vita insieme. È un mistero, qualcosa che esula e prescinde da tutti i nessi ordinari di causa-effetto, dal mio stesso bisogno di novità. Il passaggio dall’essere un individuo all’essere una coppia è una specie di salto quantico, un balzo ontologico: un lavoro duro e costante per l’ego, che non stupisce spesso logori e causi rotture. Ma dedizione e cura sono parole che amo profondamente: dicono qualcosa che colloco al centro di me, un territorio di mancanze antiche per tutti noi ex bambini invisibili, diventato col tempo il fondamento incondizionato e lucente di tutto ciò che sono e voglio essere.