Vivere su un’isola, via dall’asfalto grigio, via da una vita che non piace più, che fa a cazzotti con il cuore. L’eterna seduzione del “mollo tutto” alla ricerca della felicità tocca quasi un italiano su 10. Lo ha messo in evidenza l’analisi condotta nel 2024 da Hays Italia, società di recruiting, e da Serenis, centro medico e piattaforma digitale per il benessere mentale, su un campione di quasi 1.000 lavoratori. L’8% degli intervistati ha già pianificato tutto e si dichiara pronto a tagliare con il passato entro l’anno. E per uno su 3 la felicità è su un’isola. «Seconda stella a destra, questo è il cammino» cantava Edoardo Bennato. Ma l’isola che non c’è qualcuno l’ha già trovata. In Italia o poco più lontano, nel Mediterraneo. Uomini e donne, talvolta coppie. C’è chi dipinge, chi coltiva vigne e chi olivi centenari. Tutti isolati e felici. Ecco le loro storie.
Vivere su un’isola: Alicudi e Roberto

«Io ho sempre voluto vivere su un’isola. Da napoletano, sono cresciuto con Capri davanti agli occhi, una specie di miraggio azzurro» racconta Roberto Luongo, 50 anni e un passato nel marketing farmaceutico. «Giornate intere a intervistare medici sul colore di una boccetta di medicinale». La sua isola l’ha trovata in Sicilia: Alicudi, la più remota delle Eolie, 70 abitanti e qualche mulo. Un approdo felice, nel 1999. «Avevo poco più di 20 anni e vivevo l’amore della mia vita. Insieme comprammo una vecchia casa, che divenne asilo di lunghe villeggiature». Una casa antica, in alto sulla montagna, la Monachedda, con qualche problema di umidità, dove Roberto inizia a dipingere sul vetro santi e pescatori, Madonne e sirene, cactus, fiori di cappero. Scopre il favoloso mondo dei “pincisanti”, i pittori siciliani che lavoravano su vetro. Per tutti è semplicemente Roberto di Alicudi. Un giorno il grande amore finisce. «Un naufragio disastroso, un’intera vita cancellata in poche settimane, uno stravolgimento totale. Mi restava la pittura, e soprattutto l’isola». Nel 2018 Roberto lascia tutto e si aggrappa al suo scoglio.
La bellezza della solitudine
Inizia la sua vita ad Alicudi, impervia e sperduta. «Cominciai a trascorrere l’inverno lì, imparai le leggi della solitudine, la bellezza delle giornate che terminano alle 19. Abbandonai la mia vita di città, il lavoro con le sue scadenze e le piccole miserie della carriera». Alicudi è contemplazione e fatica. Si cammina, anzi “s’inchiana”, ci si arrampica su per le vecchie mulattiere di pietra. Sono 540 i gradini che portano alla Monachedda, dove il panorama che si apre è immenso. Roberto ascolta il vento, parla con i muli e dipinge. Nel 2023 ha presentato la prima mostra a Palermo, lo scorso anno a Capri. Ma torna sempre sulla sua isola. «Io so stare da solo, non mi preoccupa il silenzio, non mi spaventa la giornata vuota».
Vivere su un’isola: Beatrice e gli olivi di Amorgos

Beatrice Rock ha trovato la sua isola nel dicembre del 2006. «Fu una vecchia nave che ora non c’è più, Romilda, a portarmi ad Amorgos, nelle Piccole Cicladi. Avevo 49 anni, un primo matrimonio, un nuovo compagno e 5 figli». L’accoglie un’isola aspra e rocciosa, con capre al pascolo e strapiombi vertiginosi, di una bellezza fatale. Le piace, è quello che cerca. «Un’isola fuori dalle grandi rotte turistiche, solo per trekkers e per chi non cerca comodità». Milanese di nascita, da padre istriano e madre napoletana, Beatrice ha un’anima avventurosa. Compra un uliveto abbandonato e incolto da decenni. Di olivi se ne intende, ha una laurea in Agraria a Milano, esperienza di agricoltura di montagna in Trentino e di olivocoltura bio in una vecchia tenuta di famiglia a Massa Lubrense, nella Penisola sorrentina. «Ci sono voluti 2 anni per rigenerare il terreno e gli alberi. E per aver il primo olio, appena 18 litri, ma che gioia!».
L’olio dagli alberi felici
L’anno successivo i litri sono diventati 437, un olio buono, naturale, «che nasce da alberi felici» dice Beatrice. I locali la osservano, parla loro di permacultura e agricoltura sintropica. Ha un sogno e un progetto più ampio, sociale ed ecologico: recuperare i terreni incolti, gli olivi centenari dell’isola e antiche tecniche agricole per aiutare chi coltiva la terra su questi pendii aridi e scoscesi. La sua giornata inizia presto. «Prima yoga e meditazione, poi vado nell’uliveto dove c’è sempre qualcosa da fare». Appena può, va a camminare con i suoi 4 bassotti e un cane che ha adottato da poco. «Aveva un padrone irresponsabile. Gli animali prima di tutto». Si occupa delle colonie di gatti e sostiene le campagne di sterilizzazione. Inoltre da qualche mese è in prima linea con la comunità locale, riunita nell’associazione Limin, contro il nuovo sindaco e quel progetto di ampliamento del porto di Katapola per l’attracco delle navi da crociera. «Un’idea scellerata che rischia di compromettere il delicato ecosistema dell’isola, l’identità locale e il patrimonio di tutta questa comunità».
Vivere su un’isola: la vigna di Alessandra

Se fosse un film, probabilmente si intitolerebbe Due cuori e una vigna. È la storia di Alessandra Acampora, giovane architetta napoletana, e di Gabriele Ramacciani, ex informatico a Bruxelles e viticoltore nella Tuscia, sua terra di nascita. I due si conoscono nel 2019 a Filicudi. «Era il mio ultimo giorno di vacanza, una giornata di pioggia di fine estate, quando dici il destino» ricorda Alessandra. Gabriele è sull’isola perché ha ricevuto in eredità dalla nonna dei terreni e vuole piantare una vigna. Lo faranno insieme nel lungo anno della pandemia. Anno di isolamento e di semina. Mentre il mondo chiudeva, loro a Filicudi vivevano i mesi più intensi della loro vita, con i piedi nella terra e il cuore nello zucchero. Di viticoltura Alessandra non sa niente. Ha una laurea, un master e un dottorato in Architettura alla Federico II di Napoli, ma l’amore fa grandi cose. Impara a zappare e a piantare barbatelle, a fare il pane nei lunghi pomeriggi d’inverno quando sull’isola restano meno di 200 abitanti e solo un alimentari aperto. «Si impara il tempo lento, a vivere di sussistenza quando la nave non arriva per il mare in burrasca, a essere felici con poco, raccogliendo i rapuddi, per esempio, che sono piante selvatiche che somigliano alle cime di rapa».
La rinunce e la meraviglia
Ci sono rinunce, ma anche tanta meraviglia. In 2 anni la vigna prende forma, è l’unica sull’isola: un anfiteatro naturale spalancato sul mare, 31 terrazzamenti di muri a secco e filari di malvasia e selvatico. Un incanto. Appena un ettaro, ma una fatica immensa. A eccezione di una motozappa, si fa tutto a mano. E su e giù, a piedi lungo una mulattiera impervia. D’estate Alessandra e Gabriele propongono visite guidate alla vigna con aperitivo al tramonto. Hanno fatto la prima vendemmia a fine agosto, 200 bottiglie che ancora non hanno un nome. «Abbiamo tanti progetti, altri 10 ettari da coltivare e un rudere dall’altra parte dell’isola dove vorremmo fare una piccola stanza per romantici e sognatori. Ma ora pensiamo al matrimonio, il mese prossimo ci sposiamo».
Vivere su un’isola: i vini di Federico

Certe isole si scoprono anche per seguire una passione. Così è stato per Federico Garzelli, 33 anni, enologo con il pallino per la viticoltura in terre di frontiera. Piemontese, dopo gli studi a Torino, scopre in Alto Adige il lavoro dei piccoli vignaioli di montagna che sfidano pendii scoscesi e temperature estreme. Fare vino in situazioni complicate lo intriga. Così non ci pensa due volte quando nel 2021 viene chiamato a Patmos, l’isola della Apocalisse di San Giovanni, per gestire la piccola azienda Patoinos fondata dallo svizzero Josef Zisyadis: 2 ettari di vigna, un uliveto e una casa colonica che condivide con la compagna greca Eirini.
I vini delle Terre dell’Apocalisse
Qui nascono le prime bottiglie di Assyrtiko e Mavrothiriko, i vini dalle “Terre dell’Apocalisse”. Da un anno la sua casa e la sua vita sono su un’altra isola: Nisyros, nell’Egeo meridionale. «Più che un’isola, è un vulcano attivo in mezzo al mare, poco battuta dal turismo, molto wild, dove abitano meno di 1.000 persone e c’è solo l’essenziale» racconta Federico, che qui coltiva 2 ettari e mezzo di vigna e ha fondato la sua azienda, Nisyros Wines. «Se ho bisogno di un paio di scarpe devo prendere un traghetto e raggiungere Kos». Ritmi lenti e natura selvaggia scandiscono le giornate. «Fuori dalla vigna c’è poco o nulla da fare, ma ogni volta che mi immergo in uno dei tanti bagni idrotermali dell’isola penso proprio di aver trovato il mio angolo felice di paradiso». Quando non è in vigna, gira il Dodecaneso alla ricerca di piccoli vigneti di contadini locali, compra le loro uve a un prezzo equo per vinificarle a Nisyros. Un bel progetto di viticoltura sociale per preservare le piante e una tradizione vitivinicola millenaria. Entro l’anno sarà pronta anche la cantina, ma ci sarà da aguzzare la vista per trovarla: architettura sostenibile, in pietra e legno, a zero impatto, quasi nascosta nel crinale del vulcano, con piante aromatiche locali e prati sui tetti.