Donna Moderna dedica il mese di settembre all’angioplastica. Gli esperti dell’Unità operativa di Cardiologia interventistica del Policlinico Universitario di Padova, diretto dal professor Giuseppe Tarantini rispondono ai vostri quesiti il martedì e il mercoledì, dalle 9 alle 12, al 3669987241. Oppure potete mandare un’email a: meseprevenzione@gmail. com
L’intervento si fa in anestesia locale
Nel 2016 sono stati eseguiti quasi 154.000 interventi di angioplastica, la tecnica che permette di riaprire una coronaria occlusa da arteriosclerosi oppure da un trombo. Di questi, solo 35.000 sono stati effettuati entro sei ore dall’infarto, a riprova del fatto che oggi si tratta di un’operazione a cui si può ricorrere senza emergenza. «E a differenza di un tempo si può effettuare anche quando le arterie ostruite sono due oppure tre» spiega Giuseppe Tarantini, presidente GISE, la società di cardiologia interventistica. «Con un risultato importante anche dal punto di vista della ripresa, perché bastano l’anestesia locale e una degenza in ospedale di solo un paio di giorni». Insomma, niente a che vedere con il by-pass, cioè l’inserimento di un piccolo condotto a “ponte” per portare il sangue oltre il tratto chiuso. Fino a poco fa era la scelta obbligata se le coronarie coinvolte erano più di due e l’operazione, più complessa di un angioplastica, prevede l’anestesia generale. Riusciamo a valutare la tecnica adatta al singolo caso anche grazie a nuovi esami che forniscono una fotografia dettagliata della zona malata» aggiunge l’esperto. Vediamo allora le novità che hanno reso l’angioplastica più sicura.
I tempi di ripresa sono rapidi
L’intervento consiste nel portare nell’arteria del cuore un palloncino che viene gonfiato nel punto del restringimento. Vengono quindi inseriti uno o più stent, cioè piccole reti di metallo, che hanno la funzione di mantenere aperta la coronaria occlusa. «Palloncino e stent oggi vengono trasportati attraverso l’arteria radiale, presente nel polso, e non più l’inguine come si faceva un tempo» sottolinea il professor Tarantini. «I tempi di ripresa sono più rapidi: al massimo nell’arco di un paio di giorni il paziente può essere dimesso. E il microtaglio si camuffa con le pieghe del polso».
In alcuni casi già il giorno dopo l’intervento il paziente può iniziare a muoversi. In altri servono qualche giorno di riposo e un programma di riabilitazione. «Il fisioterapista mette a punto un iter in accordo con il cardiologo» spiega Tarantini. «Così si aiuta il cuore a riprendere il suo lavoro al giusto ritmo. E la muscolatura, che deve “estrarre” dal flusso sanguigno l’ossigeno necessario per i movimenti del corpo». Il programma va continuato a casa: camminata a passo veloce, cyclette o bicicletta, per un’ora tre volte alla settimana. «Se viene fatto con costanza, l’esercizio fisico aiuta anche a mantenere il peso forma, a riportare nella norma i valori di pressione, colesterolo e glicemia» conclude l’esperto.
Un nuovo esame per le coronarie
Oggi se non ci si trova in una situazione di emergenza e si hanno dei dubbi sul tipo di lesione delle coronarie, si può ricorrere al FFR, la valutazione della riserva frazionale di flusso: abbinato alla TAC, permette di ottenere una “cartina” dettagliata delle coronarie, delle occlusioni presenti e della circolazione del sangue. Questi dati vengono elaborati da un computer che identifica con precisione l’entità delle limitazioni nel flusso sanguigno. Il vantaggio è che l’indagine non è invasiva come la coronarografia, che richiede l’iniezione di un mezzo di contrasto, un’anestesia locale e spesso una notte di ricovero.
Stent diversi per donne e uomini
Gli stent di ultima generazione oggi sono in due versioni, per lui e per lei. «Le arterie femminili hanno un calibro minore rispetto a quelle maschili» chiarisce il professor Tarantini. «Per questo quando interveniamo sulle donne utilizziamo reti di misura piccola». Non solo. Gli stent sono medicati, cioé la superficie contiene un farmaco che viene rilasciato gradualmente nell’arco di un anno. Lo scopo è di abbattere il rischio di un’esagerata cicatrizzazione attorno allo stent (fenomeno definito restenosi) e la formazioni di nuovi trombi. Un bel passo avanti: in questo modo le percentuali di successo si avvicinano al 100 per cento.
Lo stent medicato serve anche in caso di restenosi. «In circa il 2-5% dei casi, a distanza di 3-5 anni da un intervento di angioplastica scatta una reazione da parte dell’organismo» spiega il professor Giuseppe Tarantini. «Si crea un problema di restenosi: in pratica un restringimento all’interno dello stent, provocato da una cicatrizzazione delle pareti dell’arteria. A essere più a rischio sono i pazienti diabetici». La soluzione? «Il palloncino medicato viene trasportato dall’arteria radiale fino a dove c’è lo stent e qui viene dilatato, rilasciando il medicinale».