A pochi mesi dalla morte dell’attrice Anna Marchesini, scomparsa il 30 luglio del 2016 prima di compiere 63 anni, arriva in libreria il suo ultimo romanzo, scritto nelle fasi acute della malattia e lasciato incompiuto. Mentre l’artrite reumatoide imprigionava il suo corpo, deformandolo, Anna volava via leggera e scriveva uno strepitoso inno alla gioia e alla libertà.

Un regalo postumo che si chiama È arrivato l’arrotino (Rizzoli), il suo quarto libro dopo Il terrazzino dei gerani timidi, Di mercoledì e Moscerine. In appendice una selezione di poesie inedite, scritte tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Ottanta.

Nell’era digitale l’attrice, ammalata da tanti anni, scriveva a mano, prima in brutta e poi in bella copia. Il manoscritto, fitto di consonanti ritorte e sghembe, riporta tutta la fatica di un’attività quotidiana che a lei, incurvata dal male, non ha comunque impedito di lasciarci parole di gioia e tagliente ironia. La testimonianza di come la sua lezione più vera sia quella di “essere grandi anche nel dolore”.

Anna Marchesini alla fine ha perso la sua battaglia contro la malattia, ma ne ha vinta un’altra: quella di far parlare dell’artrite reumatoide, “la bestia”, che in Italia colpisce 400mila persone, di cui la maggior parte donne.

A presentare il romanzo, la toccante lettera della figlia di Anna, Virginia, che qui pubblichiamo. Ora ha 24 anni e lascia un ricordo struggente di una Marchesini poetessa, immaginifica, solare e aperta. E madre: “Mamma, mi manchi e sarai sempre nei miei pensieri più intimi, cercherò i tuoi occhi in qualsiasi altro sguardo umano”.

“Lettera ad un poeta, mia madre” di Virginia Marchesini

Eccoci qua, poeta! A scriverti, le righe parlano e raccontano chi sei, forse era tutta una vita che aspettavi il senso vero di quel qualcosa che sapeva di fiori e di glicine misto a profumo di rosa e di natura umana, quella vera, e di sensazioni più intime, e di immediata bellezza e di gioiosa immensità.

Io mi ricordo bene quando tu lavoravi e stavi dietro ai miei vissuti di emotività e di ansia, e di quel vivere noioso e quotidiano; di quel qualcosa di vero, di quell’immaginario silenzio che il poeta era in grado di udire e di sentire; erano tutti in silenzio ad applaudirti e tu con il senso di una persona fragile e notturna, che rifletteva in una piccola barca di eterno temporale.

La nostra vita era così, mamma, quando il nido si è rotto e si è ricomposto con una voglia d’amore e di canzoni nostre, ti ricordi i nostri sorrisi? E i tuoi momenti bui con cui un poeta deve convivere, le ali di un uccello in volo erano la tua immagine preferita, le ore che scrivevi, correggevi, o chiacchieravi con gli amici al telefono, il tuo sorriso e le tue risate, i tuoi giochi di parole con cui amavi parlare, raccontarti e silenziosamente esprimerti nella correzione del tuo libro, occhi gioiosi e tanto immaginativi, erano in silenzio anche i tuoi ragionamenti, la tua grinta che nascondevi per paura di offendere le persone. Quando annaffiavi i fiori o andavamo in campagna o al mare mi ispiravi con poche o tante parole o con un semplice «come stai?».

Il senso della tua vita era quello di onorare i giovani e di istruirli e di «educarli all’arte » di andare da soli e in autonomia come me, anche se non ti ascoltavo, e tu mi rimproveravi per questo e io ti davo i baci dopo gli schiaffi. Erano tutti pronti ad aiutarci nel nostro rapporto e tu mi chiedevi e mi dovevi ripetere tante volte le cose prima che io le facessi; io ero una bella ragazza in preda alla paura e tu mi cullavi con le tue canzoni e le tue preghiere, ti potevo chiedere consiglio, dormire con te e stare in tranquillità con te, andare a fare shopping, andare a cercare emozioni insieme anche nel salone di un parrucchiere o di un estetista, o a portare il gelato alle amiche, o andare in macchina con una persona speciale e che ti voleva tanto bene, era tua figlia quella persona.

Tutto ciò che un poeta lascia di bello è un segno che rimane nel cuore eterno di una persona per sempre, e stare in mezzo agli altri, mamma, era la cosa che ti piaceva di più, e creare un dialogo con loro, anche solo con un semplice «benvenuto» o «buongiorno», era la tua situazione ideale, anche solo per vedere una lacrima scendere dagli occhi dei tuoi fan o una risata durante i tuoi spettacoli, o condividere con gli amici o con loro sorrisi e risate era il tuo piccolo mondo e non sempre tutto andava per il verso giusto.

Qualche volta era il destino a rovinarti le cose pure e semplici della vita, ma tu avevi il tuo solito modo di sdrammatizzare tutto anche per telefono e di ridere degli incidenti della vita e di ridere, ridere e ridere ancora di tutto, e anche piangere. Quando dovevi stare bene ti mettevi a truccarti e a pettinarti e a vestirti con il tuo solito vestito anni Cinquanta a palloncino rosa a strisce nere che comprammo insieme, ti mettevi il profumo alla rosa, rimmel nero, coprispalle rosa abbinato al vestito, scarpe di colori diversi o stivaletti neri con il tacchetto, il tuo solito rossetto marrone e il tuo lucidalabbra, ti mettevi accanto alle persone e ridevi o scambiavi un abbraccio con loro.

Mamma, ricordati che le cose belle sono nella vita semplice e nelle piccole e grandi sconfitte, quelle piccole vittorie che tu o noi ci prendevamo erano vittorie contro un mondo assurdo e banale che stava sempre a vedere le apparenze e mai il dettaglio o la sostanza delle cose.

Mamma, mi manchi e sarai sempre nei miei pensieri più intimi, cercherò i tuoi occhi in qualsiasi altro sguardo umano, ti ricordo e ti ripenso nelle nostre cene a letto e nei nostri abbracci notturni. Ti stringe forte tua figlia, quella ragazza che hai allevato e che sempre rimarrà tua”.