Annalisa Minetti, prima di essere cieca, è una donna. Che è anche mamma. Perché non dovrebbe poter avere dei figli? La sua disabilità condiziona il suo diritto di diventare genitore? Si è scatenata una shitstorm dopo che ha pubblicato su Instagram una foto con in braccio la sua ultima nata, Elena, mentre festeggia un bel 27 all’università. Un duro colpo per gli haters: ma come, sei disabile, canti, balli, presenti programmi, sei un’atleta paralimpica, sei tornata all’università a 40 anni e ora diventi mamma per la seconda volta? Com’è possibile raccogliere così tante medaglie dal paniere della vita partendo da una condizione come la sua? C’è chi la accusa di esibire una presunta normalità: «Io non avrei messo al mondo un secondo figlio e certo non vorrei fare cose oltre la normalità solo per apparire normale. È una persona piena di sé». Alcuni invece le rimproverano di essere una privilegiata: «Non avrei messo al mondo dei figli che non potrei mai vedere. Lei fa mille attività: avrà una stregua di persone che l’aiutano».
Un figlio è sempre un segno di civiltà
Chi accusa Annalisa Minetti di una scelta incauta ed egoista mette in crisi i principi della Convenzione Onu del 2006 sui diritti delle persone con disabilità, che rivendica con forza come la disabilità non debba essere qualcosa che impedisce l’uguaglianza. Non bisogna dimenticare l’importanza simbolica che ha la nascita di un figlio: segno di civiltà e di crescita, per chiunque. Una scommessa sul futuro, su se stessi, un’incognita che apre la visuale e spinge al cambiamento, all’innovazione. «Un figlio è il segno della novità. Per tutti, sempre e comunque, è l’irruzione della novità nel nostro orizzonte: nessuno sa come sarà, come diventerà il nostro bambino. Dalla capacità di accogliere la sua novità nasce la nostra civiltà» commenta il professor Alessio Musio, docente di Etica all’Università Cattolica di Milano.
Perché una donna cieca non può fare la mamma e invece un uomo può fare il padre?
Ciò che sconvolge così tanto un certo popolo dei social è che la disabilità appartenga alla donna che vuole fare la mamma, e non all’uomo. Andrea Bocelli, pure lui non vedente, non è stato mai attaccato per il fatto di essere padre. «L’Italia è ancora preistorica: le donne sono chiamate a ruoli multipli, l’uomo solo a lavorare. Ma questo non è un buon motivo per impedire a una donna disabile di fare la mamma» dice Paolo Cendon, professore ordinario di diritto all’Università di Trieste e fondatore del movimento “Diritti in movimento”. «Oltretutto, la donna che diventa madre è comunque dentro a una relazione e a un sistema: ha un compagno, una rete intorno. È una visione miope quella di chi riduce tutto alla relazione mamma-figlio».
Ciò che conta è la responsabilità, al di là dell’essere disabili
Anche perché, prima della disabilità, dovremmo vedere la persona. Chi in una mamma cieca vede la sua disabilità prima dell’essere donna, è più cieco di lei. «Occorre guardare alla responsabilità dei genitori. Ciò che conta è che i genitori siano in grado di occuparsi del loro bambino, disabilità o meno» commenta ancora il professor Musio. Parliamo di genitori al plurale, perché non esiste solo la mamma, ma anche la figura paterna e le rispettive famiglie. «Chi sui social attribuisce alla Minetti il privilegio di avere chissà quale rete intorno, dimostra come oggi tendiamo a pensare agli altri come individui isolati e soli, fuori dalla comunità. Il problema è che oggi ci aspettiamo sempre più dalla tecnologia e sempre meno dagli altri. Invece dovremmo poter pensare a una società che ti aiuta e ti assiste, soprattutto se sei in una condizione di fragilità. E, in Italia, esiste per fortuna una tradizione, non sempre adeguatamente valorizzata, composta dal terzo settore, dalle associazioni, dal volontariato». Una rete preziosa a cui affidare le nostre fragilità.
Anche i più vincenti sono fragili
«Anche una persona nota e vincente sotto molti aspetti, come Annalisa Minetti, ha le sue fragilità. Perché ognuno è fragile a suo modo» commenta il professor Cendon. «Come si dice in Anna Karenina, “Le famiglie felici sono tutte uguali, quelle infelici sono infelici a modo loro”. E così per le persone fragili. Vuol dire che ognuno di noi è una combinazione irripetibile, il montaggio di spicchi diversi. Ognuno ha il suo destino e anche il modo di proteggere queste persone va adattato come un vestito su misura. Le risposte a bisogni così diversi sono difficili ma vanno cercate. Il desiderio di maternità di una persona disabile va rispettato ma va studiato, capito: il problema è politico, occorre un supporto più efficiente e responsabile. Oggi i servizi sono allo sbando, sembrano un lusso. Ogni comune dovrebbe attrezzarsi con uno sportello di gestione della fragilità. L’assessorato alle politiche sociali andrebbe moltiplicato e coinvolto il terzo settore, il volontariato e le famiglie. Solo cosi avremo una vera gestione e non l’abbandono».
Avere un figlio e stare in carrozzina vuol dire essere meno mamma?
Quanto sia preziosa la rete di cui hanno bisogno le persone disabilil lo dimostra la storia di Mariangela e Tiago, diventati genitori della piccola Sharon, che oggi ha 11 mesi. Vivono a Napoli insieme ai genitori di lei, che la aiutano e supportano in modo concreto. Maryangel_85 (così si chiama sui social, dove ha migliaia di followers) ha una forma di distrofia muscolare che la costringe sulla sedia a rotelle. Prima di diventare mamma si è sottoposta a una serie di esami per escludere che la sua malattia si potesse trasmettere al bambino.
«Non mi sento eroica e non penso che fare la mamma nella mia condizione sia qualcosa fuori dal comune. Il problema è che in genere le persone con disabilità devono dimostrare agli altri (ma prima di tutto a se stesse) che la disabilità non incide negativamente sul loro ruolo. Per questo, quando si racconta di noi, veniamo etichettate come eroiche, straordinarie, guerriere. Ma siamo mamme come tante. Questa retorica non ci appartiene. Come tutte le mamme, non siamo perfette né eroiche. E vorrei che di una donna come me, si dicesse semplicemente che è una mamma». Mariangela stringe in braccio il suo fagottino, l’ha allattata e ora svezzata, come tutte le mamme. «Quando Sharon mi chiederà perché non corro come le altre mamme, le risponderò che io la amo come tutte le mamme amano i loro bambini». Ma sua figlia non glielo chiederà perché per lei la sua mamma sarà quella che ha sempre conosciuto: per lei questa è la sua normalità di famiglia. Non esistono famiglie perfette, ognuna ha una storia, dei valori, uno stile e dei problemi unici che saranno comunque diversi da quelli delle altre. Sharon non si vergognerà della sua mamma così particolare e non penserà di avere meno degli altri: questi sono pensieri che appartengono semmai a noi adulti.
La tecnologia aiuta le mamme non vedenti
Matilde Lauria invece è cieca, oltre che sorda, e ha tre figli, di 22 anni, 19 e 6. L’ultimo nato è Gabriele, di cui lei è rimasta incinta quando aveva 45 anni, già cieca e in procinto di diventare del tutto sorda. «Non ho mai pensato di abortire. Avrei tenuto il mio bambino a qualsiasi condizione. E alla fine lui è nato sano». Nel frattempo Matilde è diventata sempre più autonoma grazie alla tecnologia, che oggi rende le persone cieche indipendenti per molti aspetti della vita quotidiana: dai macchinari per avvertire il citofono e la porta, all’uso del telefono con le app giuste, sia per telefonare che per leggere. E poi tutti gli aiuti per la mobilità, tra il bastone bianco e gli accorgimenti per spostarsi nel traffico della città. La sua rete preziosa è stata la Lega del Filo d’Oro, che l’ha supportata e la supporta tuttora, ma anche i vicini di casa, tutto il popolare quartiere di Napoli in cui vive. «Le mie difficoltà sono quelle di tutte le mamme. Tutte noi siamo fragili e attaccabili, in ogni momento, qualunque siano i nostri punti deboli». Perché tutti noi abbiamo delle fragilità. Tutto sta nel prendere in mano il proprio destino e diventarne i protagonisti.