Briciola è una ragazzina solare, brava a scuola, sportiva. Ha 12 anni, le guance rotonde e un bel sorriso. Prima sono piccoli segnali, i carboidrati vengono eliminati dalla dieta, l’attività fisica è sempre più intensa. «In famiglia non ci siamo allarmati, probabilmente abbiamo sottovalutato, ma mia figlia a pranzo mangiava in mensa e non si faceva mai vedere svestita. Ci sembrava normale, tante ragazzine di quell’età sono pudiche. Poi un giorno mia moglie l’ha guardata nel suo tutù di danza e ha creduto di vedere un fantasma: c’erano solo ossa attaccate a quel corpicino. Mi ha mandato la foto e sono rimasto pietrificato». Il giorno dopo Marco, sua moglie e la bambina sono dal medico di base che immediatamente li indirizza a un centro per la cura dei disturbi del comportamento alimentare di Firenze, la città dove abitano.

Inizia la lenta accettazione, la cura e l’uscita dal tunnel di Briciola. È papà Marco a raccontare tutto in un libro, Scendo all’inferno ma mi fermo in paradiso (Europa Edizioni), in cui l’inferno è quello dell’anoressia di cui si è ammalata sua figlia quando era ancora una bambina. Quando lo contatto, sceglie di rimanere anonimo, come ha fatto nel suo racconto, e di essere chiamato solo con il nome, per rispetto di sua figlia che ora ha 17 anni, sta meglio e vorrebbe lasciarsi alle spalle tutto il dolore che ha attraversato. Anche se è stata proprio lei a consigliargli di trasformare in un vero libro le note disordinate appuntate sul telefonino durante le notti insonni nei lunghi anni della malattia.

La tempestività delle cure fa la differenza

L’8 ottobre un altro papà, Stefano Tavilla, ha organizzato una manifestazione davanti al ministero della Salute per chiedere il potenziamento dei servizi di cura per i disturbi del comportamento alimentare e il loro inserimento autonomo nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza (attualmente rientrano nell budget destinato alla cura delle patologie psichiatriche). A differenza di Briciola, la sua Giulia non ce l’ha fatta, è morta a 17 anni in attesa di accedere a un centro pubblico. Se già la situazione prima della pandemia era complicata (le persone che in Italia soffrono di disturbi alimentari sono circa 3 milioni, di cui 2,3 milioni sono adolescenti) adesso è disastrosa: nell’ultimo anno l’incremento dei casi è stato del 30%.


«Per anni mia moglie e io dovevamo essere lì a controllare che nostra figlia osservasse il protocollo indicato dai medici, lì a sorvegliare su ogni piccola goccia d’olio che lei cercava di far scivolare dal piatto senza farsi scoprire»


Di anoressia si può morire, e la tempestività delle cure fa la differenza, ma le liste di attesa già lunghe si sono ulteriormente allungate. Conferma la psichiatra Sara Bertelli, responsabile del Servizio disturbi alimentari Asst Santi Paolo e Carlo di Milano e presidente dell’associazione Nutrimente: «Prima del Covid ci aggiravamo sui 2, 3 mesi di attesa ma ora siamo ancora più in affanno. I primi appuntamenti vengono fissati a 6 mesi dalla chiamata. E questa è la situazione milanese, in altre regioni va molto peggio, ci sono città che non hanno nemmeno un ambulatorio pubblico».

Il papà di Briciola sa di essere stato fortunato, perché in attesa dell’ospedale si sono potuti rivolgere a un centro privato. «Lì ho percepito immediatamente la gravità di quello a cui saremmo andati incontro: conoscevo già la malattia, ne aveva sofferto la sorella del mio migliore amico, ma non avrei mai immaginato le scene folli che avremmo vissuto. Il giorno in cui mia figlia ha preso un coltello da cucina e lo ha puntato contro di sé per non andare in ospedale, gli interminabili giorni trascorsi in reparto o a vigilare sui suoi pasti. Abbiamo implorato i medici di non ricoverarla per mantenere una parvenza di vita normale, Briciola passava le giornate in ospedale e poi tornava a casa a dormire. Per anni non siamo mai usciti a mangiare una pizza perché dovevamo essere sempre lì quando lei mangiava, per controllare che osservasse il protocollo indicato dai medici, lì a sorvegliare su ogni piccola goccia d’olio che lei cercava di far scivolare dal piatto senza farsi scoprire».

Il ruolo del papà e quello della mamma

Spesso, come nel caso della famiglia di Marco, sono le mamme ad accorgersi che qualcosa non va nel rapporto della figlia con il cibo. E spesso è la relazione con la madre a essere indagata quando si parla di disturbi alimentari. I padri restano sullo sfondo. Perché? «Il papà non è quasi mai la persona che accompagna la figlia, la maggior parte delle richieste di aiuto ci viene dalle mamme. Per come funzionano le famiglie italiane, è la madre a occuparsi della salute e, in particolare, questo disturbo è una patologia che colpisce per il 90% il genere femminile. I papà sono spesso meno attenti all’alimentazione e hanno meno familiarità con il corpo delle figlie: è soprattutto la madre ad accorgersi se la figlia ha cambiato taglia o non ha più il ciclo» commenta Sara Bertelli.

Marco conferma: «Molti papà non c’erano alle visite in ospedale e nei gruppi con le altre famiglie a cui partecipavamo. Ammetto che anche io all’inizio scalpitavo, guardavo l’orologio perché mi sembrava di perdere tempo, ho un’azienda e quelle attese mi costringevano a sottrarre tempo al mio lavoro. Ora ringrazio Dio per essere stato là».

La presenza del padre può fare la differenza

Perché la presenza del padre può fare la differenza. «Se la ragazza è minorenne siamo obbligati per legge a chiamare tutta la famiglia ai colloqui, se è maggiorenne lo facciamo comunque» spiega Sara Bertelli. «I papà sono coinvolti dal grado zero della cura. Ma spesso all’inizio sono disorientati, talvolta pensano che il comportamento della figlia sia un capriccio per attirare l’attenzione. Quando cominciamo a dialogare con loro diventano preziosi, sono meno stanchi delle madri, che magari arrivano da noi dopo mesi di lotte con le figlie. Un papà partecipe è meno in ansia, ha una visione più nitida e riesce a supportare la madre». Marco è d’accordo: «Mia moglie è stata fondamentale fin dall’inizio. Ma gli uomini sono per natura meno viscerali e questo aiuta. E inoltre scherzano, a volte sdrammatizzano: anche nei momenti più bui sono riuscito a prendere in giro mia figlia e a strapparle un sorriso».


«I padri sono meno stanchi delle madri, sfibrate da mesi di lotta con le figlie. Sono più lucidi e possono essere di grande supporto»


Briciola è appena tornata da un viaggio ad Amsterdam con suo fratello, dove ha mangiato hamburger e patatine. Ha superato anche la prova del Covid, che per molte persone con un disturbo del comportamento alimentare ha significato una regressione. Marco lo dice piano piano, incrocia le dita, però di una cosa è sicuro: «Il mio cuore esplode di amore e di orgoglio per la mia Briciola. Spero che questo libro possa dare speranza a tante famiglie».

Il libro sull’anoressia

Si firma Padre Anonimo l’imprenditore 50enne che ha scritto Scendo all’inferno ma mi fermo in paradiso (Europa Edizioni), una raccolta di pensieri e di emozioni vissute “dalla parte del padre” accanto alla figlia Briciola, oggi 17enne, caduta nel tunnel dell’anoressia quando aveva appena 12 anni. «Ammetto che, come molti altri papà, anche io all’inizio scalpitavo, guardavo sempre l’orologio perché mi sembrava di perdere tempo, ho un’azienda e tutte quelle attese mi costringevano a sottrarre tempo al mio lavoro. Ora ringrazio Dio per essere stato là» dice.