Il ricorso agli antibiotici è diventato troppo frequente e spesso immotivato: molti dei malanni curati più diffusi, come le forme influenzali, hanno cause virali per le quali questi farmaci non servono. Al contrario, un ricorso eccessivo agli antibiotici li rende inefficaci sul lungo periodo, proprio come sta accadendo nel mondo. Secondo l’European Centre for Disease Control (ECDC), ogni anno in Europa si registrano 25.000 vittime per infezioni da germi resistenti, che nel mondo salgono a 700.000. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha lanciato l’allarme: entro il 2050 i superbug, ovvero i batteri resistenti agli antibiotici, potrebbero causare 10 milioni di decessi all’anno nel mondo, diventando la prima causa di morte.
L’Italia ha un record negativo sia nell’abuso di antibiotici, sia nella diffusione di super-batteri. “I dati ci dicono che l’80% delle infezioni ha origine virale, dunque non serve l’antibiotico, al quale invece si fa spesso ricorso per guarire. Occorre cambiare l’approccio, a partire da una migliore diagnosi della malattia” spiega a Donna Moderna Antonio Piralla, che nel 2015 ha ottenuto dall’European Society for Clinical Virology il riconoscimento come miglior virologo europeo under 40 e che oggi lavora all’Unità di virologia molecolare – Dipartimento di Microbiologia e Virologia della Fondazione IRCCS Policlinico San Matteo di Pavia.
Italia da record (negativo) per resistenza agli antibiotici
“L’Italia, insieme a Spagna e Grecia, è uno dei Paesi europei con la maggiore presenza di batteri resistenti. Questo è dovuto sia all’abuso di antibiotici, sia alle misure di contenimento delle infezioni a livello ospedaliero, a volte poco efficaci” spiega Piralla. I batteri stanno diventando, infatti, sempre più “forti” e in grado di resistere ai farmaci. Il più diffuso e “coriaceo”, che causa oltre il 50% delle infezioni, è il Klebsiella pneumoniae carbapenemasi, presente anche negli ospedali.
Secondo un report coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, ogni 1.000 ricoveri in strutture sanitarie si registrano 3 casi di infezioni. “Quando i super-batteri entrano in ospedale, anche tramite pazienti colonnizati, cioè portatori del batterio ma che non hanno infezioni in corso, è difficile debellarli dall’ambiente: le misure di contenimento sono un po’ carenti e riguardano anche le superfici”, dice l’esperto.
La prevenzione
“I pazienti colonizzati non sono infetti, ma dovrebbero subire un isolamento particolare per non trasmettere il batterio ad altri. L’unico modo perché il passaggio avvenga è tramite l’operatore sanitario: occorre quindi una migliore educazione sulle procedure da seguire, in primo luogo lavarsi le mani e cambiare i guanti. Tutti gli operatori – medici o infermieri – dovrebbero farlo sempre dopo una visita o dopo aver maneggiato un paziente. Si dovrebbero rafforzare anche gli screening, effettuati tramite tamponi e antibiogrammi, che permettono di sapere se e quali tipi di batteri cosiddetti multidrug resistant sono eventualmente presenti in un paziente appena ricoverato, soprattutto nel suo intestino, che l’organo dove risiedono maggiormente” spiega il virologo.
L’abuso di antibiotici
“Sicuramente occorre ridurre il ricorso agli antibiotici, nei casi in cui non sono necessari. Ma bisogna anche farne un uso migliore, quando invece servono. Per esempio, nelle terapie non bisognerebbe scegliere subito quelli ad ampio spettro o più potenti. Purtroppo spesso di fa poca diagnosi nell’individuare il batterio che è causa della singola infezione, per capire se è resistente o sensibile agli antibiotici. Se se ne trova uno multisensibile (col quale diversi farmaci possono essere efficaci, NdR), ad esempio, è sbagliato curarlo con un farmaco potente, perché sarebbe come uccidere un moscerino con una bomba atomica invece che con un ‘ammazza-mosche’, sarebbe uno spreco e creerebbe resistenza in futuro – spiega Piralla – I multidrug resistant, infatti, non si sono creati da soli, ma rispondono a sollecitazioni, che sono le terapie antibiotiche ripetute”.
L’età pediatrica
Secondo uno studio condotto negli Usa in sei grandi ospedali, al quarto giorno di ricovero in media il 60% dei pazienti viene curato con antibiotico, prescritto in 1 caso su 3 senza sintomi di infezione e per la metà dei pazienti senza uno screening approfondito sui batteri. Questo riguarda anche e soprattutto l’età pediatrica. “Il problema in effetti è soprattutto pediatrico. Quando si è adulti e si ha la tosse, difficilmente si prende un antibiotico. Se, invece, i figli hanno la bronchite ecco che il ricorso a questi farmaci aumenta, a volte in modo immotivato” dice il virologo. Per questo è fondamentale una corretta diagnosi, anche attraverso tamponi facilmente eseguibili dai pediatri, ad esempio per individuare lo streptococco: se fosse presente nel tipo A, è importante seguire la corretta terapia antibiotica. Anche i tamponi auricolari possono permette di scoprire gli specifici batteri responsabili di otiti, che possono degenerare.
Gli antibiotici nell’alimentazione
Gli antibiotici non sono utilizzati soltanto per curarsi, ma anche nel campo dell’allevamento. Finendo nella catena alimentare, però, entrano anche nell’organismo umano. “I batteri possono proliferare nell’intestino animale esattamente come in quello umano e gli antibiotici vengono utilizzati per migliorare la crescita delle bestie. Purtroppo è un problema, perché possono passare dall’animale all’uomo. La commercializzazione dei capi di bestiame è ormai globale, quindi anche se uno Stato decidesse singoli divieti o limitazioni nazionali all’uso di antibiotici nell’allevamento, questi potrebbero risultare inefficaci ” spiega Piralla, che ricorda come qualche tempo fa si è verificata in alcuni animali in Cina la resistenza alla colistina, ovvero un antibiotico considerato “l’arma più potente che noi abbiamo contro i batteri multidrug resistant. Il modo in cui i batteri diventano resistenti, infatti, sono due: o tramite una variazione del genoma, dovuta a un iper-trattamento, dunque un abuso di antibiotici; oppure tramite dei plasmidi, paragonabili ad anelli, che ‘passano’ da un soggetto a un altro la capacità di resistere” conclude l’esperto.
Da qui la raccomandazione a un uso prudente degli antibiotici in veterinaria e l’appello a una strategia cosiddetta One Health, cioè a un maggior controllo delle infezioni in ogni settore.
A che punto è la ricerca scientifica sui nuovi antibiotici?
Da tempo si parla della necessità di scoprire nuovi e più efficaci antibiotici, perché la ricerca sembra avere subito una battuta d’arresto. “Le aziende farmaceutiche hanno una sensibilità diversa rispetto alla comunità scientifica, ma il problema potrebbe essere rappresentato anche dal fatto che non si trovano nuovi ritrovati. La capacità di adattamento dei batteri è molto più veloce rispetto ai tempi delle ricerche mediche” spiega Piralla, che però ipotizza nuove soluzioni: “Forse in futuro una nuova arma potrebbe essere rappresentata dagli anticorpi monoclonali, che potrebbero essere impiegati indipendentemente dal fatto che un batterio sia sensibile o resistente a un antibiotico, perché agiscono sulla capacità di reazione del sistema immunitario. Se è vero che l’uscita di nuovo antibiotici è scarsa, forse questa potrebbe rappresentare una terapia del futuro”.