Si chiama anuptofobia ed è la paura di restare single, di non sposarsi o avere un compagno ed è aumentata, complice l’emergenza sanitaria e il lockdown. Se fino a qualche anno fa si considerava parte della più grande categoria delle ossessioni, oggi ha un proprio nome che ha aiutato a sdoganarla e a rendere più semplice il fatto di parlarne.
Tratta questo tema anche il film cult Il diario di Bridget Jones, dove la protagonista è alla costante ricerca dell’amore e dell’equilibrio di una relazione duratura. Ma se nella finzione cinematografica c’è l’immancabile lieto fine, nella realtà può essere difficile uscire dalla condizione di frustrazione legata al fatto di essere single, specie tra le donne dopo i 40 anni.
Siamo tutte Bridget Jones?
Quasi 1 italiano su 3 vive da solo (31%). In alcune regioni come la Liguria, la percentuale di single è persino del 40,9%, in Valle d’Aosta del 39,6% e in Friuli Venezia Giulia del 35,6%. Secondo i dati di un censimento (Coldiretti-Istat) sono ben 7,7 milioni le famiglie con un solo componente. Eppure ancora oggi non avere un compagno o un marito è fonte di ansia per chi soffre di anuptafobia, inserita tra i disturbi ricordati in occasione della Giornata Mondiale della Salute Mentale (10 ottobre). Ma se è vero che quasi chiunque nella vita ha avuto il timore di non trovare l’anima gemella, l’anuptafobia ha tratti caratteristici, come la continua ricerca di un partner o dell’uomo ideale, o la dipendenza affettiva, che porta ad accettare storie sbagliate pur di non rimanere sole.
L’identikit di chi soffre di anuptafobia
«Spesso è una donna con una storia di vita fatta di rifiuti, abbandoni e tradimenti da parte delle cosiddette figure di attaccamento: i genitori prima e i partner poi» spiega Anna Chiara Venturini, psicologa e psicoterapeuta. «L’anuptafobica ha generalmente una bassa autostima, dipendenza affettiva dall’altro e una gelosia eccessiva: tutti elementi che spesso la portano a un controllo ossessivo del potenziale partner di turno. Risente molto della pressione sociale legata alle credenze su famiglia, coppia e maternità, secondo le quali una donna per realizzarsi deve avere accanto a sé un uomo e procreare, altrimenti ha qualcosa che non va» aggiunge l’esperta. «Di solito si tratta di una single, intorno ai 40 anni e ancora socialmente individuata come zitella, che non è stata capace di trovare o mantenere una relazione con un uomo».
L’ideale dell’uomo perfetto
Le donne anuptafobiche generalmente sono delle novelle Bridget Jones, quantomeno per il fatto di essere alla ricerca del partner perfetto, dell’uomo dei sogni, salvo scontrarsi con la realtà dell’imperfezione o col fatto di non accorgersi (o non volersi accorgere) dei suoi difetti. Questo porta a insistere in relazioni sbagliate che non potranno che finire male, aumentando la frustrazione e il senso di fallimento: «Tutte le aspettative sociali e culturali inducono un’ansia molto forte e costante, a cui si alternano momenti di profonda tristezza che possono sconfinare in stati depressivi. La persona avverte questa ansia in parallelo alla paura di non riuscire a trovare un partner, finendo per incontrare in maniera seriale vari partner o restando in relazioni sterili e tossiche perché le permettono di mantenere la maschera sociale di fidanzata e quindi non zitella» spiega Venturini.
Zitella mai!
Se un uomo dopo i 30 o anche 40 anni viene definito scapolo d’oro, con un’accezione non negativa, a una donna non accadrà mai di essere chiamata “nubile d’oro”. Da qui un senso di inadeguatezza che l’anuptafobica cerca di tenere a bada in due modi: «La ruminazione mentale, quindi il fatto di continuare a rimuginare sulla propria condizione, autosvalutandosi o dando la colpa a un presunto accanimento del destino; e il controllo continuo dei social così da monitorare cambiamenti nel partner di turno e placare temporaneamente quelle emozioni. In realtà questo è solo un palliativo, poiché quelle emozioni torneranno appena l’ipotetico compagno adotterà un comportamento diverso rispetto alle attese» spiega la psicoterapeuta.
Una paura che arriva dall’infanzia
Abbandoni, tradimenti, svalutazioni, rifiuti sono tutti motivi del senso di inadeguatezza che porta all’anuptafobia. Ed è radicato nell’infanzia, soprattutto se si è vissute in un ambiente caratterizzato da imprevedibilità e sfiducia. «La donna che oggi soffre di anutpafobia può essere stata una bambina con un attaccamento insicuro, ambivalente o disorganizzato, che non ha imparato a gestire le emozioni in modo adeguato perché il genitore era a sua volta incapace di farlo o era assente» spiega Venturini. Questo porta a considerare la fine di una relazione come un fallimento personale, con un senso di incomprensione da parte degli altri e di conseguenza una ancora maggiore voglia di trovare qualcuno che rassicuri, dal quale però si finisce inevitabilmente col far dipendere la propria autostima. «Questo può accadere anche a chi ha vissuto in un ambiente iperprotettivo o con persone più anziane, che impediscono di strutturare un senso di sé autonomo e capace di autodeterminarsi a prescindere dagli altri» aggiunge l’esperta. Chi ha avuto un attaccamento sicuro, invece, avrà maggiore resilienza e capacità di accettazione, considerando la storia finita come un’occasione di crescita personale e cercando dentro di sé le risorse per ripartire.
Cosa c’entra il Covid?
«La pandemia e il conseguente lockdown hanno determinato in ciascuno di noi un innalzamento del livello di vulnerabilità individuale e un aumento del senso di impotenza, risvegliando vecchie paure o generandone di nuove. Tra queste l’anuptafobia – spiega l’esperta – che ha riscontrato un notevole incremento a causa delle restrizioni anticovid, con meno contatti sociali, meno occasioni conviviali e un mondo virtuale in cui riversare i tentativi di conoscere persone», come dimostrato dall’aumento dell’uso di chat e dating online. «Si è però creato anche un circolo vizioso tra ricerca, investimento, illusione, senso di fallimento e paura di restare single» aggiunge Venturini.
Consigli per uscire dal “tunnel della singletudine“
«La prima indicazione è quella di lavorare sulle dinamiche di abbandono e rifiuto risalendo ai traumi vissuti nel passato», magari facendosi aiutare da un esperto. È però possibile adottare piccoli accorgimenti anche nella vita di tutti i giorni e in modo autonomo: per esempio, strutturare una quotidianità in cui si possano inserire attività da cui trarre emozioni e gratificazioni, in modo che la relazione affettiva non sia vista più come unica fonte di approvvigionamento emotivo e/o di sicurezza; non vivere ogni nuova relazione come se fosse quella della vita; dare valore agli altri ambiti di vita: spesso la persona riduce tutto all’obiettivo di trovare un partner e non considera gli altri traguardi che può porsi e da cui può trarre nuove gratificazioni, come il lavoro, i viaggi, il tempo da trascorrere con le amiche.