Spesso le abbiamo scaricate senza pensarci troppo, felici di poter finalmente delegare la scocciatura mensile di tenere traccia del ciclo mestruale. Così le “app calendario” sono diventate ben presto una quotidianità nei nostri smartphone. Secondo i dati raccolti da Bloomberg, le usano infatti più di 100 milioni di donne nel mondo: tra le più diffuse ci sono Glow, Flo, Ovia e Clue e vengono utilizzate indifferentemente sia da chi cerca una gravidanza sia da chi non la vuole ma fatica a star dietro ai ritmi del proprio corpo. Sono indubbiamente una comodità e, nella loro versione più evoluta, possono aiutare a prendere confidenza con le fasi che il corpo di una donna attraversa, aiutare a riconoscere sintomi e malesseri, monitorare le irregolarità. Come con tutte le app, però, sollevano anche molte questioni. Ecco quali.
Il boom del “femtech”
Il successo delle app per le mestruazioni va considerato nella tendenza delle app che monitorano la salute. Una tendenza che risale almeno al 2014, ovvero l’anno in cui Apple ha lanciato la funzione dell’iPhone “Health”, che permetteva agli utenti di registrare una mole non indifferente di dati relativi al proprio stato di salute. Nella sua prima versione, Health non dava la possibilità di tenere traccia del ciclo mestruale, una curiosa lacuna che ha fatto sì che nascessero app specializzate proprio in quello. Come ha scritto Kaitlyn Tiffany in un lungo approfondimento su Vox, quello del “femtech” – ovvero tutti quei prodotti digitali che sono esplicitamente rivolti a un pubblico femminile – è un mercato che in molti hanno inizialmente sottovalutato e che invece, secondo le previsioni degli analisti, diventerà sempre più redditizio con il passare degli anni.
Scrive infatti Tiffany che, «secondo le stime, il mercato del “femtech” varrà all’incirca 50 miliardi di dollari entro il 2025, eppure a livello globale solo il 10 per cento degli investimenti è diretto alle start-up guidate da donne. In Apple, le donne occupano il 29 per cento delle posizioni di comando e il 23 per cento delle posizioni tecnologiche, e si tratta quasi sempre di donne bianche. È questo lo standard dell’industria, solo di poco migliore rispetto ad altri campi lavorativo». Oggi con Apple Health, gli utenti possono registrare non solo i loro cicli mestruali, ma anche la temperatura corporea basale, la qualità del muco cervicale e i risultati dei loro test di ovulazione. Ed esistono una miriade di app che offrono gli stessi servizi, spesso condite da una grafica “femminile” – dove il rosa, i fiori e l’aspetto cartoonesco la fanno da padrone – e un linguaggio a metà tra l’empowerment e il confidenziale.
Quanto sono affidabili?
Uno dei primi interrogativi di fronte al proliferare di queste app è stato quello sulla loro affidabilità scientifica. Su cosa si basa il loro algoritmo? Quanto sono veritiere le loro previsioni? Sono domande legittime, soprattutto se consideriamo l’evoluzione che molte app hanno attraversato sin dal loro debutto. All’inizio si limitavano a raccogliere le date di inizio e fine ciclo e i sintomi più comuni, oggi arrivano a profilare l’utente medio in maniera sempre più specifica.
Come segnala Natasha Singer su New York Times, Flo e Clue hanno recentemente introdotto delle nuove funzioni che, attraverso dei questionari che partono dai dati sul ciclo, sondano il rischio di soffrire della sindrome dell’ovaio policistico. Secondo le note ufficiali di Flo, nel mese di settembre 2019 sono state più di 630mila le donne che hanno completato i questionari e 240mila, circa il 38 per cento, quelle alle quali l’app ha “consigliato” di approfondire la situazione con il proprio medico. «Quello che queste donne potrebbero non sapere, però, è che le app non hanno condotto studi clinici approfonditi per determinare l’accuratezza della loro valutazioni, sia per quanto riguarda il rischio reale per il loro stato di salute sia per non incappare in conseguenze indesiderate come la diagnosi eccessiva».
Non è certo la prima volta che questo tipo di app finiscono sotto accusa. Bloomberg riporta il caso di Natural Cycles, «un’app approvata dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti che lo scorso anno è stata duramente criticata in Svezia dopo che molte donne sono incappate in gravidanze indesiderate mentre la utilizzavano. Le autorità svedesi hanno quindi preteso che l’app dichiarasse più chiaramente che non poteva garantire una precisione del 100%». Queste app possono perciò funzionare come utilissimi promemoria, ma non possono considerarsi sostitutive di un parere medico professionale: un recente studio su Nature Digital Medicine rileva infatti come i risultati elaborati dalla maggior parte delle migliaia di app per la salute, oggi disponibili a livello globale nei prinicipali app store, non siano poi supportati da dati scientifici di alto livello.
Cosa succede ai nostri dati?
Un altro fattore da considerare, infine, è l’utilizzo dei nostri dati sensibili. Queste app, tanto per cominciare, non devono soddisfare gli standard di privacy cui sono tenuti medici e ospedali e oggi utilizzano i dati degli utenti principalmente per vendere loro qualcosa. Questo è il motivo per cui le app si sono concentrate sin da subito su mestruazioni e fertilità, che sono gli ambiti più commercialmente appetibili, e hanno ignorato molte altre tematiche riguardanti la salute sessuale e riproduttiva delle donne. «Si possono fare un sacco di soldi in questa sorta di sorveglianza collettiva femminile», si legge sul blog femminista Jezebel. La giornalista del Daily Mirror Talia Shadwell ha recentemente raccontato su Twitter di essere stata bombardata di pubblicità di pannolini e prodotti per neonati senza neanche essere incinta. Ha quindi realizzato che era per “colpa” dell’app che monitorava il suo ciclo, che aveva evidentemente rivenduto i suoi dati ad aziende terze. Ma cosa succederà nel futuro? È un problema che dobbiamo porci, soprattutto ora che l’elemento digitale è entrato in tutti gli ambiti della nostra vita. Vogliamo davvero che la tecnologia si riduca solo a pubblicità online?