Che la nostra sia l’epoca delle tifoserie, spesso insensate, è oramai un dato di fatto. Basta osservare l’evolversi del dibattito politico italiano (ma anche internazionale, a dirla tutta) negli ultimi mesi, fatto di infinite battaglie social fra schieramenti opposti, che spesso si rendono identificabili tramite bandierine e slogan ripetuti fino alla nausea, che più che comunicare fra loro sembrano volersi schiacciare, annientare, distruggere a colpi di tweet e bufale internettiane. I temi sono spesso complessi e, proprio per questo motivo, polarizzanti: quello dei migranti, per esempio, che è diventato una sorta di battaglia navale sulla pelle di chi non può replicare, e quello dei diritti delle donne, di cui discutiamo furiosamente dallo scorso ottobre, quando è scoppiato il “caso Weinstein”.
Domenica 19 agosto il New York Times, che insieme al New Yorker aveva lanciato l’offensiva contro Weinstein, ha pubblicato un’altra inchiesta: e questa volta riguarda Asia Argento, che del #MeToo e della campagna ai danni del disgraziato produttore cinematografico è stata uno dei volti più in vista. La storia l’avrete letta: secondo alcuni documenti legali ottenuti dal NYT, Argento avrebbe patteggiato un risarcimento di 380.000 dollari con Jimmy Bennett, attore oggi 22enne che l’ha accusata di averlo aggredito sessualmente nel 2013, quando lui aveva 17 anni e quindi, secondo le leggi della California, non aveva ancora raggiunto l’età del consenso (che in quello stato è fissata a 18 anni). Argento ha replicato martedì 21 agosto con un comunicato stampa, riportato da Il Post, in cui si legge: «Nego e respingo il contenuto dell’articolo pubblicato dal New York Times che sta circolando nei media internazionali (…) Non ho mai avuto alcuna relazione sessuale con Bennett». L’attrice italiana sostiene che quello di Bennett sia stato un ricatto, al quale lei e l’ex compagno Anthony Bourdain, morto suicida lo scorso 8 giugno, hanno acconsentito per mantenere la reputazione di quest’ultimo, decidendo «di gestire la richiesta di aiuto di Bennett in maniera compassionevole e venirgli incontro».
Ora, potremmo metterci a discutere dei tanti particolari che non tornano dell’intera vicenda – il fatto che Bennett abbia denunciato Argento solo dopo l’esposizione mediatica da lei ottenuta nel caso Weinstein, oppure ancora che il giovane attore abbia denunciato anche i suoi genitori accusandoli di averlo lasciato sul lastrico – ma finiremmo per impantanarci qui nella parte peggiore del dibattito che ha seguito il #MeToo, che prima di ogni cosa è stato una confessione comune che abbiamo visto fluire sui social, un hashtag attraverso cui milioni di donne nel mondo hanno raccontato le proprie esperienze di violenza, molestie, soprusi. Si è trattato di un vero e proprio fiume emotivo, di cui abbiamo cercato, con fatica, di tirare le fila, scontrandoci praticamente su tutto.
Le implicazioni socio-politiche del #MeToo, lo ammetteranno anche i detrattori, non si possono negare: le questioni sollevate sono state tante e ci hanno coinvolto tutti. Lo si è detto più volte: il fatto che le denunce siano partite da Hollywood ha da un lato ha catalizzato un’attenzione impensabile, dall’altro ha sviato la discussione su altre dinamiche. Ha ragione chi dice che è mancata l’attenzione sulle donne comuni, mentre ci si è concentrati sulle vicende di poche privilegiate. Una cosa è certa, però, e cioè che quella di questi mesi non è mai stata una discussione inutile, o almeno non del tutto: nel dopo-Weinstein ci siamo interrogati sul significato di consenso e mascolinità, abbiamo indagato i nuovi femminismi, gli squilibri di potere e la narrazione della violenza, ci siamo anche chiesti come e se separare l’opera dall’artista e quali sono le conseguenze degli abusi sulle vittime. Ci siamo anche interrogati sul concetto stesso di “vittima” e sul suo significato. È vero, abbiamo assistito a innumerevoli gogne pubbliche, pratica ingiustificabile che i social hanno esacerbato fino all’esasperazione, e a semplificazioni mortificanti da una parte e dell’altra degli “schieramenti”, ma anche ad altrettanti momenti di presa di coscienza collettiva.
All’indomani delle prime denunce, Michela Murgia ha scritto qui su Donna Moderna che «finché continueremo a trattare le vittime di abuso in questo modo, denunciare costerà più del silenzio e le donne continueranno a tacere» ed è una posizione sulla quale, almeno personalmente, non mi sento di indietreggiare nemmeno oggi. Non sta a me, né a chiunque riconosca il cambiamento in atto nelle dinamiche fra i sessi, giudicare le vicende personali di Argento, della cui “caduta” c’è chi esulta barbaramente, o di Bennett, verso il quale c’è chi nutre la stessa diffidenza riservata alle accusatrici di Weinstein. Ha scritto Tarana Burke, fondatrice del #MeToo, su Twitter: «Ho ripetuto più volte che il #MeToo è di tutti, compresi i giovani uomini che ora si stanno facendo avanti. Continueremo a essere sorpresi ogni volta che qualcuno che ammiriamo sarà associato a una violenza sessuale fino a che non la smetteremo di parlare dei singoli individui e inizieremo a parlare di potere».
Troppo spesso ci siamo dimenticati, in questi mesi, che quel cambiamento in atto nella società si traduce, immediatamente, in un fatto politico. Possiamo accapigliarci quanto vogliamo sulla credibilità o meno di questa o quell’ambasciatrice, riscrivere continuamente i requisiti dell’attivismo e quelli del femminismo, pop o intransigente che sia, ma alla base del #MeToo c’è una pressante richiesta di ridistribuzione dei ruoli sociali che è difficile da ignorare. È qualcosa che in parte spiega anche questo disperato bisogno di leader, più o meno improvvisati, che si cementificano a furia di retweet, spesso rimanendo travolti dalla posizione che si sono scelti: quello davanti alla barricata è pur sempre un palconscenico, d’altronde, e l’estrema personalizzazione delle cause il più delle volte fa male tanto al crociato di turno quanto alla causa stessa. Asia Argento non era la vittima perfetta e neanche la femminista perfetta: per questo è stata ed è, in queste ore, doppiamente massacrata. La rottura iniziata a forza dal #MeToo, però, rimane un punto di partenza per dare il via a quella richiesta di cambiamento. Non prima di aver spezzato i circoli viziosi degli schieramenti social, il mito della perfezione femminile e quello del politicamente corretto, fra le altre cose: tutte cose che finora non abbiamo fatto.