Avvicinarsi al lavoro e alla vita quotidiana con una mentalità da atleti professionisti è la chiave per sentirsi meglio, focalizzandosi sui propri obiettivi e raggiungendoli con più facilità. Poche regole, le stesse che valgono per chi si allena. Sul piano fisico mangiare bene, dormire molto, concedersi delle pause, cambiare la propria routine. Su quello mentale, il più importante: individuare i propri punti di debolezza, concentrarsi sui traguardi alzando ogni giorno un po’ di più l’asticella. Su quello dei rapporti: imparare che il gioco di squadra è fondamentale ma funziona solo se tutti condividono lo stesso traguardo e c’è una figura, il capo, che riesce a coordinarci facendo esprimere ognuno al suo meglio.
Tutte indicazioni utili, in tempi “normali”, che sono al centro di manuali e programmi di formazione. Ma cosa succede se una pandemia stravolge le nostre abitudini e mette in discussione ogni obiettivo? Come è possibile programmare i propri sforzi in un momento di crisi, o fare squadra davanti a un monitor? Lo abbiamo chiesto a 2 grandi esperti del settore: un allenatore di successo prestato al business e un imprenditore che ha importato la mentalità sportiva nella sua azienda.
Alberto Calcagno
Amministratore delegato di Fastweb (sponsor della Nazionale di Ginnastica artistica), runner e autore di Get in the game (Oscar Mondadori).
Come si importa la mentalità sportiva dentro una grande azienda? «Sport e ambiente di lavoro sono due facce della stessa medaglia. In entrambi i casi servono la condivisione di obiettivi e responsabilità, la voglia di migliorarsi, l’ambizione – che è una cosa diversa dall’arrivismo – e la capacità di godersi le vittorie e accettare le sconfitte».
Detto così è facile. Ma come si fa a farla funzionare alla scrivania, soprattutto adesso? «Con l’imprenditorialità, che è l’altro punto in comune tra i successi in campo e quelli sul lavoro. Gli obiettivi naturalmente possono cambiare, ma se tutti hanno la possibilità di esprimersi, il risultato diventa più alto della somma dei singoli talenti».
E un buon capo su cosa dovrebbe puntare? «Sugli errori. Come un allenatore insiste in allenamento sui punti deboli di un atleta, io inizio sempre le mie riunioni dalla coda, chiedendo a chi mi sottopone un’idea quali siano le difficoltà che rischiamo di incontrare, più che i benefici. È un approccio che vale anche nella vita quotidiana, oggi che le nostre priorità sono stravolte».
Ecco, appunto: per un lavoratore non è più difficile sentirsi parte di una strategia comune in tempi di smart working? «Se per smart working intendiamo che l’azienda si limita a consegnarti un portatile prima di abbandonarti a te stesso, sì. Se invece il lavoro a distanza diventa l’occasione per responsabilizzarsi, dialogare meglio, liberare più creatività, conciliare gli impegni e ridurre lo stress, ci sono vantaggi per tutti. Una passeggiata nel parco sotto casa libera più endorfine di una pausa caffè in ufficio, per esempio!».
Nel suo libro c’è un parallelo che colpisce con Filippo Tortu. «Nel 2019, ai Mondiali di atletica, il velocista sardo arrivò in semifinale nonostante un paio di prestazioni non all’altezza. Molti pensavano che quello fosse per lui il massimo risultato raggiungibile. Invece lui fece un ottimo tempo e non sfigurò neppure in finale. Questo fanno i campioni: trovano un collante nervoso che solidifica la convinzione nei propri mezzi, anche quando altri getterebbero la spugna. E questo è ciò che deve fare chi, in azienda, si trova oggi ad affrontare nuovi ostacoli come il Covid o la crisi economica».
Mauro Berruto
Ex allenatore della Nazionale di pallavolo e coordinatore del team di tiro con l’arco, business coach, in libreria con Capolavori. Allenare, allenarsi e guardare altrove (EdiDi).
Si può davvero migliorare trattando un ufficio come se fosse una squadra? «Un gruppo non è una squadra, lo diventa quando ha un obiettivo comune. Vale su un campo di calcio o di pallavolo come in un’azienda, piccola o grande. Indicare a tutti quell’obiettivo spetta al leader, che ha anche la responsabilità di modificarlo se le condizioni sono cambiate, come sta succedendo adesso. Ma il contributo più grande devono darlo tutti gli altri».
In che modo? «Come un atleta che in questi mesi è stato costretto ad allenarsi da solo, chi è in smart working deve sforzarsi di cambiare mentalità, ritmi di lavoro e di trovare soluzioni nuove. Se non lo fa, rischia di rimanere indietro. E un buon capo deve farsi coach coordinando questi sforzi individuali, riconoscendo a tutti il loro contributo: cosa che spesso sul posto di lavoro non capita».
Cos’altro serve? «Fatica e organizzazione. Tornando al Covid, tutti abbiamo apprezzato il sacrificio di medici e infermieri, ma abbiamo anche visto come sia più efficace dove gli ospedali e i sistemi sanitari sono più attrezzati a reagire agli imprevisti».
C’è una storia di sport che può ispirare chi oggi affronta questi scenari? «Ai Giochi olimpici di Sidney 2000 Josefa Idem si è trovata a gareggiare in mare semiaperto, con l’acqua mossa e raffiche di vento fortissime: pensò a lungo di ritirarsi. Ma, da grande atleta quale era, si è adattata per tirare fuori il meglio da quella situazione. E ha vinto l’oro. Chiunque, oggi, sul posto di lavoro vede che il quadro è cambiato e le difficoltà sono cresciute. Ma occorre non perdere la concentrazione, dandosi obiettivi realistici e tirando fuori il massimo per raggiungerli. Se non può essere il 100% ma solo il 95%, andrà bene lo stesso».