Non leggevo più, non uscivo più, non ascoltavo più la musica. La mia testa era altrove, non riuscivo a distrarmi dall’unico pensiero fisso che avevo: la paura di un nuovo attacco di panico». A parlarmi così e a guardarmi con due occhi nocciola che non vedono l’ora di tornare a vivere è Laura, 15 anni, di Torino, al secondo anno di liceo scientifico. «Il primo attacco di panico l’ho avuto l’anno scorso, durante un’interrogazione. I sintomi? Tachicardia, sudore alle mani, mancanza di respiro, confusione. Insomma, non riesci più a parlare e non riesci nemmeno a spiegare cosa ti sta succedendo. Ti sembra di morire. Una fatica enorme, come se corressi una maratona. Una sensazione orribile, la più brutta che abbia mai provato» racconta Laura che purtroppo con questa fatica deve convivere tutte le settimane.
E come Laura sono tantissimi, troppi, i ragazzi che in questo ultimo anno di pandemia, si sono trovati ad affrontare problemi di ansia, aggressività, depressione, autolesionismo
anche perché separati dagli amici e senza la scuola in presenza a fare da “ammortizzatore” a stress, emozioni e cambiamenti. Lo sa bene Antonella Costantino, a capo della Neuropsichiatria infantile del Policlinico di Milano e della Società italiana di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza (Sinpia). «Tutti i giorni ricevo telefonate di genitori disperati che non riescono a trovare aiuto nei servizi pubblici. Per un medico è disumano continuare a ripetere che non siamo in grado di prendercene cura». L’allarme lanciato dalla professoressa Costantino è confermato dai dati: a gennaio 2021 in Lombardia gli accessi di ragazzi in pronto soccorso per atti autolesivi e tentativi di suicidio sono stati 96, più del doppio di quelli registrati nello stesso mese del 2020 (allora erano 45). Mentre i ricoveri in neuropsichiatria infantile sono passati da 41 a 59. E nelle altre Regioni italiane la situazione non è molto diversa.
I fattori che hanno causato questo aumento sono molteplici
Da un lato, la pandemia ha fatto da “detonatore” a fragilità che in altri periodi sarebbero rimaste sotto traccia e che invece in questa situazione sono esplose in modo dirompente, come è successo a Laura. «Dall’altro, i numeri che vediamo adesso sono l’onda lunga che ci portiamo dall’anno scorso. Nel 2020 sono stati ricoverati in Neuropsichiatria Infantile in Lombardia circa 600 pazienti in meno. Perché la gente aveva paura di andare a farsi curare e allo stesso tempo il distanziamento diminuiva gli spazi disponibili» spiega Costantino. Ma questo non è l’unico motivo per cui in questi mesi stiamo assistendo a un boom di casi. «La pandemia ha decolpevolizzato il chiedere aiuto. In pratica, il Covid ha reso legittimo, soprattutto per i ragazzi, il fatto di rivolgersi a noi esperti, di raccontare quello che sentono, di farci capire il loro disagio» dice l’esperta.
Lo sa bene Laura. Che dopo i primi attacchi di panico, ha intuito che non poteva farcela da sola, che aveva bisogno di una mano che la tirasse via da quel baratro. E ha chiesto aiuto. «L’ho raccontato subito a mia mamma. Eravamo a fare shopping, ho chiuso gli occhi, ho preso un bel respiro e… gliel’ho detto, tutto d’un fiato. Che botta! Più facile, invece, parlare con i dottori del centro. Nessuna vergogna. Un sollievo. Figo sentirsi di nuovo al sicuro» racconta, con un sorriso velato dalla commozione. «Se il chiedere aiuto adesso è stato sdoganato, accettare di dover prendere le medicine resta però ancora un tabù» aggiunge Angelo Bertani, psichiatra e responsabile del Centro Giovani Ponti dell’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano, un ambulatorio gratuito. Il motivo? Me lo spiega Laura. «Parlarne con i dottori ci fa sentire forti, doversi curare con le pastiglie, invece, ci fa sentire deboli, fragili, ammalati».
Sono cifre importanti quelle del disagio psichico delle nuove generazioni, una situazione che allarma gli esperti da tempo
E per questo la professoressa Costantino, qualche mese fa, ha scritto una lettera al presidente del Consiglio Mario Draghi e al ministro della Salute Roberto Speranza: «Negli ultimi 10 anni si è osservato il raddoppio dei pazienti seguiti nei servizi di neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza. I numeri erano preoccupanti già prima del Covid: 200 bambini e ragazzi su 1000 avevano un disturbo neuropsichico, ovvero quasi due milioni di minorenni. Ma solo 60 su 200 riuscivano ad accedere a un servizio territoriale e 30 ad avere risposte terapeutico-riabilitative appropriate.
Con il risultato che 7 su 1000 si recavano al pronto soccorso per un disturbo psichiatrico, 5 su 1000 venivano ricoverati» scrive la professoressa. Aggiungendo che la grande maggioranza veniva parcheggiata in reparti “non appropriati”. Una denuncia forte, che fa paura, e che è stata accolta dal ministro Speranza: nel decreto Ristori bis è stato inserito lo stanziamento di 20 milioni di euro per un reclutamento straordinario di psicologi e altri 8 milioni per potenziare i servizi territoriali e ospedalieri di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza.
Un piccolo passo avanti, certo, ma ancora troppo piccolo
«I miseri 390 posti letti di neuropsichiatria infantile disponibili attualmente nel nostro Paese andrebbero raddoppiati, andrebbero aumentati i posti nelle scuole di specializzazione: nei prossimi cinque anni in Lombardia andranno in pensione 200 neuropsichiatri infantili e ne entreranno meno della metà e così in tutte le altre Regioni. E poi andrebbero potenziate le strutture già esistenti» continua Costantino. Proprio quei centri e quelle strutture territoriali e semiresidenziali, indispensabili per prevenire, per quanto possibile, il ricorso al ricovero ospedaliero ma che in realtà sono un altro punto dolente. «Nel nostro centro nei primi 5 mesi di quest’anno abbiamo preso in cura 180 ragazzi. Tanti rispetto all’anno scorso in cui ne abbiamo accolti 270 in totale» dice Angelo Bertani. «Potenziare gli ambulatori come il nostro, creare degli spazi non solo di cura ma di socializzazione, di confine con l’ospedale, luoghi in cui questi ragazzi possano trovarsi, attivare nuove competenze, vincere la solitudine, riadattarsi alle situazioni sociali sarebbe fondamentale». Una richiesta chiara, a volte esausta, di chi però non si rassegna perché ama il proprio lavoro ma soprattutto perché di mezzo c’è la salute dei nostri ragazzi. La denuncia arriva anche dalle cosiddette “Uonpia”.
Sono le unità territoriali di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza che hanno il compito di prendere in carico chi ha meno di 18 anni e viene dimesso dagli ospedali, seguono i minori su indicazione dei pediatri per disturbi del comportamento, del linguaggio, dell’apprendimento e sono arrivate ad avere una sofferenza di personale così grave che devono fare miracoli anche solo per i casi più urgenti e hanno liste di attesa che a volte superano i 12 mesi. Decisamente troppi.
Perché togliere l’attesa, accorciare i tempi, fa la differenza. «In primis per i genitori. Poche settimane fa ho ricevuto una mail di un padre disperato perché la figlia aveva iniziato a tagliarsi e non sapeva più a chi rivolgersi. A queste richieste bisognerebbe poter dare una soluzione immediata. E non dover dire: “Mi spiace, non posso aiutarla”» conclude Costantino. «Ma anche per i giovani pazienti è importante. Perché più si aspetta, più il disturbo mette radici profonde, conquista terreno, si crea un suo spazio. Proprio ieri è venuto da me un ragazzino di 16 anni depresso che, non essendo mai stato seguito in questi ultimi mesi, adesso ha un grado di sofferenza grave, che richiede interventi complessi ». È stata brava e fortunata, quindi, Laura a essere tempestiva. «Adesso sto progettando le vacanze, a Riccione. Sarebbe un bel traguardo riuscire a partire. Spero di farcela!». E noi, lo speriamo con lei.