Quando ripenso a Birkenau la prima cosa che vedo è il camino del forno crematorio. Sputava fiamme e fumo notte e giorno e la nostra blockova (si chiamavano così le sorveglianti) ci diceva che da quel camino uscivano le anime. E a me e a mia sorella Andra, che avevamo 6 e 4 anni, andava bene così. La morte era una tranquilla certezza del perimetro della nostra realtà, che, in quanto ebree, credevamo non potesse essere che quella di Birkenau. C’erano i sassolini con cui giocare e i cumuli di cadaveri attorno a cui correre.
C’eravamo io e Andra, sempre attaccate l’una all’altra, come per proteggerci. E ci sembrava perfettamente naturale non vedere più la mamma. O patire costantemente il freddo. In altre parole, avevamo costruito un senso di normalità per difenderci dall’orrore. Non ricordiamo di aver mai provato paura, forse perché così piccole non sapevano cosa fosse la morte. Eppure mia sorella ha iniziato a fare pipì a letto dalla prima notte a Birkeanu e ha smesso di farla il giorno della liberazione.
Io e Andra siamo tra i pochissimi bambini usciti vivi dallo sterminio, dobbiamo ringraziare la fortuna per questo
Le selezioni che le guardie naziste facevano periodicamente tra noi piccoli, erano ogni volta un bivio tra la vita e la morte. Dalla prima rampa, appena scese dal treno, dove eravamo nella fila giusta, quella che non era diretta alle camere a gas. Fino a essere assegnate alla baracca con una blockova che ci ha voluto bene e che, per quanto ha potuto, ci ha sempre protette.
A chi oggi mi chiede cos’ho imparato dalla mia prigionia e dalla successiva esperienza da profuga tra Italia e Jugoslavia, rispondo che la vita può cambiare repentinamente e senza un motivo. E che è fondamentale, nel dolore, non rimanere soli e avere qualcuno che ci infonde coraggio.
Solo con gli anni abbiamo capito quanto essere in due ci abbia aiutate a sopportare le privazioni subite negli undici mesi a Auschwitz
E quanto nostra madre sia stata un’àncora formidabile per diventare, nonostante il peso del passato, le donne equilibrate che siamo. Nel campo di concentramento sfidava la morte per venirci ad abbracciare. Passavano mesi tra una volta e l’altra, ma non mancava mai di ripeterci il nostro nome e cognome. Come a ricordarci che non eravamo solo cinque cifre tatuate sul braccio. E anche dopo, quando ci eravamo finalmente riunite a Trieste, ci ha insegnato a non guardarci indietro, perché non avremmo colto le occasioni che avevamo davanti. Con i miei figli nemmeno ho parlato molto dei miei ricordi.
Al contrario, con i miei nipoti ho condiviso il mio vissuto sin da quando erano piccoli. Una sera piangevano perché volevano la mamma. Così gli raccontai che io, alla loro età non ce l’avevo, ma che non avevo mai pianto per questo. Il più grande, che all’epoca aveva 5 anni, il mattino seguente mi chiese cosa le fosse successo. A essere sincera non ricordo cosa gli risposi ma mi colpì che nonostante fosse così piccolo volesse capire. La sua curiosità mi ha dato la speranza che, grazie ai giovani, la memoria sopravviverà anche quando non ci sarà più chi ha vissuto quegli anni.
Io credo che si possa raccontare l’Olocausto a un bambino
Non è facile trovare le parole, soprattutto con i più piccoli, ma nel tempo è importante dire loro tutto. Da come si è giunti alle leggi razziali, fino a spiegargli di quali orrori può essere capace l’uomo. Ci sono libri straordinari, film e documentari. E poi c’è la possibilità di fare un viaggio della Memoria con i ragazzi più grandi, visitando un campo di sterminio. È un modo per avvicinarli a quello che è stato. È un ponte emotivo sull’abisso storico che separa noi e le nuove generazioni. Viviamo in un’era in cui è facile venire raggiunti e influenzati da ostilità, paure e pregiudizi nei confronti di chi non è come noi.
Ma io e Andra in questi anni ci siamo convinte che prendere coscienza di come siano andate le cose aiuterà i giovani a giudicare il presente; a riconoscere dove sta il male e a schierarsi affinché tutto ciò che abbiamo vissuto noi non accada più. Chiunque ascolti le nostre testimonianze rimane colpito dalla calma che io e mia sorella emaniamo. Siamo la prova vivente che non è necessario ripagare l’odio con altro odio.
Un libro e un documentario per il giorno della memoria
“Noi, bambine ad Auschwitz” di Andra e Tatiana Bucci (Mondadori) è una toccante testimonianza, un inedito punto di vista sull’infanzia vissuta in un campo di concentramento. Ma anche sul tortuoso destino dei bambini sopravvissuti. Una storia, quella di Andra e Tatiana, che trasmette un messaggio di speranza e di amore per la vita. La storia vera delle due sorelline è protagonista del cartone animato “La stella di Andra e Tati” e si può vedere su Rai Play. In libreria arriva anche il romanzo per ragazzi pubblicato da De Agostini con lo stesso titolo e scritto da Alessandra Viola e Rosalba Vitellaro.