Ricco Nord contro povero Sud è riduttivo e fuorviante: sono 13 le Regioni che hanno avviato il confronto con lo Stato centrale per ottenere più autonomia su alcune materie. Un tema delicato, tanto che la notizia di una ipotesi di accordo tra governo e regioni del Nord ha scatenato appelli a non aumentare il divario tra aree ricche e aree povere. Il tema centrale è quello dei soldi: quanto resta sul territorio delle tasse pagate dai cittadini? La trattativa è in corso, il confronto durerà ancora mesi e non si concluderà con la trasformazione di tutte le regioni in cloni del Trentino-Alto Adige o della Sicilia.
Dove e perché nasce la richiesta?
La possibilità per le Regioni a statuto ordinario di chiedere maggiore autonomia è prevista in Costituzione, nell’articolo 116. “Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”, recita la Carta, che possono riguardare solo le materie indicate nell’articolo 117 come “concorrenti”, cioè competenza, oggi, sia dello Stato che dell’ente locale. Le più importanti sono commercio con l’estero, istruzione, tutela della salute, grandi reti di trasporto e di navigazione, energia, valorizzazione dei beni culturali e ambientali. Restano escluse le materie indicate come di competenza esclusiva dello Stato centrale, come politica estera, immigrazione, ordine pubblico e sicurezza, legislazione elettorale.
Da notare che questo meccanismo previsto nella riforma del Titolo V della Costituzione del 2001 non era mai stato attivato prima. Spiega il professor Carlo Altomonte, del Dipartimento di Scienze sociali ed economiche dell’Università Bocconi: «L’esigenza nasce da un sistema economico sempre più complesso. Servono risposte, dalla pubblica amministrazione, più adatte alle esigenze del singolo territorio. È come la differenza tra Raiuno e Netflix, tra il programma unico diffuso a tutti e quello “on demand”. Quella delle autonomie locali è una tendenza, un modo contemporaneo di gestire la complessità».
Quali regioni la chiedono?
Come detto, 13 regioni a statuto ordinario (su 15) sono coinvolte in questa trattativa con lo Stato. Sono Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna le tre in fase più avanzata, con una bozza di accordo ancora da discutere almeno fino a metà febbraio (Lombardi e veneti, nell’ottobre 2017, erano anche stati chiamati alle urne su questo tema, per un referendum consultivo). Poi Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana, Umbria, Basilicata, Calabria e Puglia.
Obiettivo, recuperare spazio di manovra sulle materie attualmente spartite tra Stato ed enti locali, incluse istruzione, tutela dei beni culturali e ambientali, tutela della salute. «Alcune regioni storicamente bene amministrate stanno così cercando di capitalizzare sui loro vantaggi competitivi. Ad esempio, la Puglia punta su turismo e agriturismo di qualità e ha innovato il sistema sanitario. E quindi chiede maggiore autonomia su queste materie», spiega Altomonte.
Quali benefici hanno ottenuto le regioni che hanno già piena autonomia?
Lo statuto speciale, che concede condizioni di massima autonomia a Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta, Sardegna e Sicilia, le fa stare davvero meglio? «No, dipende tutto dalla gestione delle risorse. Troviamo il massimo dell’efficienza in Trentino Alto Adige, in campi come l’istruzione, il sostegno all’industria e al turismo e le infrastrutture. Il minimo in Sicilia, dove il costo esorbitante della pubblica amministrazione e il basso livello dei servizi sono evidenti da anni».
In concreto, è una questione di soldi?
Il nodo vero è l’autonomia fiscale: la richiesta di avere più potere decisionale implica la necessità di trattenere sul territorio più risorse finanziarie derivanti dalle imposte raccolte sul territorio stesso. Il governatore del Veneto Luca Zaia punta da sempre a tenere in regione fino al 90% delle tasse riscosse in Veneto. Si va così a toccare il saldo tra quanto le regioni trasferiscono allo Stato, per la redistribuzione, e quanto ottengono. Facile capire perché le prime mosse siano arrivate dal Nord, con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna “prime contribuenti” d’Italia, che da sole generano il 40% della ricchezza nazionale, valgono il 54% dell’export e vantano alti tassi di occupazione.
Con più autonomia, cosa cambia per il cittadino?
«Se io sono una regione virtuosa, con l’autonomia mi ritrovo con più soldi da spendere o da investire. In cosa? In incentivi per sostenere le imprese e creare lavoro; in aiuti al turismo; in miglioramento delle infrastrutture, che significa sistemare le strade; in maggiori fondi alle mie scuole», spiega il professor Altomonte. «Ma attenzione: se una regione che trasferisce molta ricchezza allo Stato “chiude il rubinetto” in virtù della maggiore autonomia, dall’altra parte un’altra regione più povera vedrà arrivare minori fondi a compensazione. In concreto, una regione con i conti della sanità in disordine, ritrovandosi con meno soldi passati dallo Stato, potrebbe, inizialmente, subire una scossa. Anche con un peggioramento sui servizi sanitari offerti ai propri cittadini. L’idea è che questo potenziale shock possa spingere a rendere più efficiente la spesa anche nelle regioni che fino ad oggi non si sono rimboccate le maniche. Credo sia giusto responsabilizzare sempre di più le regioni del Sud, che devono organizzarsi con i propri mezzi per far fronte alle esigenze delle loro popolazioni».