Sulla linea del tempo, a metà tra il passato e il futuro, la fase dei ricordi e quella della nostalgia, c’è un punto di equilibrio. Quello in cui si smette di immaginare la vita e si comincia a viverla, riscrivendo il perimetro dei sogni dentro i confini della realtà. Lì si trova l’adulto che dovevamo diventare. In genere attorno ai 30 anni, o almeno così è andata per le generazioni che si sono alternate nel secolo scorso: quella “silenziosa” nata prima della guerra, i Boomer, la X.
L’età in cui, diceva Oriana Fallaci, i conti non dobbiamo farli più con la maestra di scuola e non ancora col prete dell’olio santo: li facciamo con noi stessi e basta, col nostro dolore da grandi. Finché, poi, è successo che nella linea della vita quel punto è sparito. Cancellato. Estinto. «I 30enni non esistono più» scriveva qualche anno fa Zerocalcare in uno dei suoi fumetti. «Come gli gnomi, il dodo e gli eschimesi. Adesso c’è l’adolescenza, la post adolescenza e la fossa comune. I 30enni sono una categoria superata, a cui ci si attacca per nostalgia, come il posto fisso».
Un vuoto aperto e non ancora colmato che Luana Francesca Belsito, in arte Wally Pain, illustratrice e fumettista, racconta nella sua nuova graphic novel intitolata non a caso 30 anni (Feltrinelli Comics). «Il confine dell’età adulta si è spostato in avanti» spiega la sociologa Chiara Saraceno, ora in libreria con La famiglia naturale non esiste (Laterza). «Negli anni ’60, a 30 anni il fulgore della vita sentivi di averlo già passato. Ora, invece, c’è l’idea che la giovinezza non finisca mai».
30 anni, la graphic novel di Wally Pain
Delle tre donne raccontate da Wally Pain, due sono madri.
La storia di Giuditta
Giuditta ha due figli e un marito, sposato per rimediare a una gravidanza inattesa. Non lavora e fa i conti con i rimpianti di una carriera da cantante lirica archiviata per dedicarsi alla famiglia. Una vita a cui, inaspettatamente, riuscirà a ribellarsi. «Gli anni ’60 sono un’epoca apparentemente ferma per le donne» osserva la sociologa Chiara Saraceno. «In realtà sono anni di profonde trasformazioni. Le norme erano immobili, i comportamenti no e le ribellioni cominciavano a manifestarsi.
Non è un caso che, proprio in quel periodo, la Corte di Cassazione prenda decisioni importanti: stabilisce, per esempio, che il rifiuto di una donna a seguire il marito nei trasferimenti per lavoro non rappresenta abbandono del tetto coniugale. Sentenze di questo genere arrivano perché le donne iniziano a rivolgersi ai tribunali, spinte da una percezione nuova dei propri diritti. E anche le separazioni aumentano, soprattutto su richiesta delle donne, fino a rendere necessaria la legge sul divorzio».
La storia di Anna
Anna i suoi 30 li attraversa negli anni ’90. Anche lei ha un marito, un figlio in arrivo e un lavoro in banca che assorbe tempo ed energie. «È la prima generazione di donne cresciuta senza gender gap nell’istruzione. Le 30enni degli anni ’90 sono andate a scuola quanto i maschi, anche se magari hanno studiato cose diverse, e iniziano a coltivare l’aspettativa che la carriera faccia parte della vita adulta» spiega Saraceno.
«Sono ancora una minoranza, ma qualcosa si muove. E nasce l’immaginario della donna che mette insieme tutto: famiglia, carriera, reddito. A farcela sono in poche, però. E, anche quando succede, sono sempre le donne a entrare nel mondo degli uomini, non viceversa».
La storia di Ginevra
L’ultima 30enne è Ginevra: vive con i genitori, non ha figli, né un compagno, né un lavoro stabile e guarda al futuro con un carico di ansie per l’assenza di punti fermi. «Le 30enni di oggi pensano in parte che il domani sia stato rubato loro da chi è venuto prima, in parte che sia una landa aperta dove tutto è possibile, basta volerlo. Cosa non vera.
La pressione maggiore che subiscono dall’esterno è sulla maternità, ma paradossalmente la sentono poco. Perché c’è stato un grande cambiamento culturale e avere figli non fa più per forza parte dell’identità femminile. Anche perché c’è l’idea che ci si può sempre ripensare».
Il tempo, dice Saraceno, è dilatato e sembra non finire mai. «Ma anche questa è un’illusione».

Wally Pain: i miei 30 anni oggi
Parla dei suoi 30 anni con l’incertezza di chi guarda le cose troppo da vicino per metterle completamente a fuoco. Wally Pain dice che l’idea della graphic novel 30 anni è nata quando, dopo oltre 10 anni fuori, le circostanze l’hanno riportata in Calabria, nella casa dei genitori. Lì, spiega, ha cominciato a riflettere sulla distanza tra sé e le donne della sua famiglia. «Noi 30enni di oggi è come se fossimo adulti a metà: non possiamo comprarci una casa, facciamo lavori precari e, spesso, ci ritroviamo a vivere con i genitori. Se il resto del mondo ti vede come un ragazzino, tu finisci per percepirti così».
Come immaginava i 30 anni da piccola?
«Pensavo che avrei avuto dei figli. Poi, man mano che ho preso atto delle mie ansie, ho archiviato il pensiero. Oggi faccio da zia ai bimbi delle amiche».
Pressioni dall’esterno ne arrivano?
«No, ma capisco chi le sente. Ti ritrovi con una data di scadenza addosso. In famiglia cade ogni freno: ti chiedono se hai il fidanzato e, se ce l’hai, vogliono sapere quando fate un bambino. Perché è scontato che lo facciate. E invece no: un figlio è una scelta consapevole, possibile ma non obbligata, la fai se puoi permettertela».
Al netto del desiderio o meno di avere figli, la precarietà quanto pesa?
«Molto. Alla mia età i miei genitori avevano una casa, io invece i soldi per comprarla non li ho, anche se lo vorrei tanto. Magari un giorno ci riuscirò, ma non ora».
Avere 30 anni negli anni ’90: Melania Mazzucco
«Ai 30 anni ci sono arrivata male». Per Melania Mazzucco il punto di svolta coincide con il passaggio dai 20 ai 30, a metà degli anni ’90. «Prima facevo mille lavori precari – la redattrice, la sceneggiatrice, la correttrice di bozze – ma nessuno mi interessava. Per me contava solo il libro che avevo scritto a 23 anni e che nessuno voleva pubblicare.
Non trovare un editore mi aveva logorata. Avevo un compagno, ma vivevamo senza fare progetti. Il lavoro non mancava, ma quella era la vita di un’altra. Ho scelto di aspettare, pagando un prezzo molto caro».
Il prezzo da pagare
Quale?
«A 29 anni ho avuto un crollo psichico: non avevo più voglia di vivere, non sopportavo la luce del sole, non uscivo di casa. Finché le porte della vita che sentivo mia si sono aperte. Prima vincendo un concorso del Teatro Stabile di Torino. E poi con la telefonata di Piero Gelli di Baldini+Castoldi, che mi convocava a Milano per parlare del Bacio della Medusa. A 30 anni il libro era stato pubblicato e avevo firmato la prima copia».
La precarietà per uno scrittore è una costante. Non le pesava?
«No, quell’incertezza era adatta a me. Io soffro le costrizioni, le scadenze, la routine».
La pressione della maternità
A 30 anni la pressione sulla maternità si fa pesante.
«Ho sempre avuto un rapporto singolare con la mia femminilità. Quando i lavori che facevo prima di diventare scrittrice erano diventati più regolari, ho pensato che, pur nella mia idea di identità androgina o non binaria come la chiamerei oggi, avrei potuto essere madre.
Nella mia vita di scrittrice, invece, no. Molte giovani in quegli anni avevano scelto di essere scienziate o magistrate e, allo stesso tempo, madri e mogli. Ma la scrittura mi sembrava inconciliabile con la maternità. Mia figlia, infatti, l’ho adottata a 40 anni».
Spesso le pressioni più forti arrivano in famiglia.
«Nella mia no. Mio padre, anche se era un uomo degli anni ’20, ha insegnato a me e mia sorella a non dipendere da un marito. Lo stesso mia madre: aveva abbandonato gli studi in architettura per sposarsi, apparentemente senza rimpianti. Dopo la sua morte, leggendo il suo diario, ho scoperto che a 80 anni le era venuto il dubbio che la società le avesse fatto credere delle cose in fin dei conti non giuste. La verità è che siamo mostruosamente influenzati dal nostro tempo: è lì che siamo tutti».
Avere 30 anni negli anni ’60: Sveva Casati Modignani

«Avere 30 anni negli anni ’60 è stato un trauma. Tutti mi hanno complicato la vita: la famiglia, i colleghi maschi, il mondo fuori. Il punto di svolta è arrivato perché ho deciso di andare controcorrente».
Sveva Casati Modignani, al secolo Bice Cairati, i suoi 30anni – l’epoca dura, prima dei romanzi (40, tradotti in tutto il mondo) e del successo – li racconta così. «Appartengo a quella generazione di donne disgraziate cresciute con un’educazione vittoriana che dovevano confrontarsi con un mondo in evoluzione. Dovevamo essere ossequiose ai princìpi che ci avevano inculcato. Il sesso era tabù e le madri ti dicevano che, se parlavi con un ragazzo, dovevi tenere gli occhi bassi perché l’uomo è cacciatore, la donna preda. Io però ho tenuto duro».
Tenere duro
Come?
«Concentrandomi su me stessa. Ho passato l’infanzia a fantasticare su quando avrei scritto un romanzo, ma le mie ambizioni venivano frustrate. La zia Maria Pettinaroli, che era di casa in arcivescovado ed era un grande punto di riferimento per mia madre, le diceva: “Non va bene che tua figlia legga troppo, le vengono i grilli per la testa”. Infatti io leggevo di nascosto, chiusa in cantina».
Scrittrice lo è diventata davvero.
«A 40 anni. Prima mi sono data al giornalismo. Lavoravo al quotidiano La Notte, unica donna in una redazione di uomini che me ne hanno fatte di tutti i colori. Un giornalista che frequentava la galleria d’arte in cui ero impiegata, sapendo che avrei voluto scrivere, mi invitò a passare in redazione. Mi mandarono a intervistare Joséphine Baker che era di passaggio a Milano. Mi dissero: “Scrivi il pezzo: se lo vedi pubblicato il giorno dopo, sei assunta”. Il pezzo uscì. Mia madre commentò: “Bene, scrivi, ma poi come ti guadagni da vivere?”».
Che cosa avrebbe dovuto fare?
«La magliaia. La zia aveva consigliato di comprarmi una macchina per la maglieria per farmi lavorare in casa. L’università non ho potuto farla: non c’erano abbastanza soldi per far studiare sia me sia mio fratello».
Al matrimonio ci pensava?
«Era un passo obbligato, ma io nella mia testa non avevo nessuna voglia di sposarmi. L’ho poi fatto, ma solo per tranquillizzare i miei genitori, soprattutto mia madre. Ma se rinasco, me ne tengo alla larga».
Anche frequentare un uomo sposato, pur se poi diventato marito, è stata una scelta controcorrente.
«È stato anche quello un atto di ribellione. Mi sono innamorata di lui perché mi aveva detto che ero bella, dopo che mia madre aveva ripetuto che avevo il naso da Pinocchio come mio padre ed ero brutta. Tutto quello che ho avuto me lo sono sudato: senza santi in paradiso alla fine ce l’ho fatta. Ma non ho mai smesso di guardare con invidia le colleghe più giovani che avevano incontrato meno ostacoli».