Ho letto da qualche parte che il sangue della donna si modifica ogni volta che aspetta un figlio e che nelle sue vene quindi, da un certo momento in poi, scorrerà il sangue di prima più alcune cose dei figli che ha portato in grembo. Questa che sto per raccontare è una storia, che è la mia ma pure la vostra. Perché, una volta che la parola esce e si dona, essa diventa un po’ di tutti. La mia storia si chiama Valerio e ha una data di inizio, che coincide pure in un certo senso con la fine.
Mi ci è voluto del tempo per tramutare questo concetto di fine in divenire. Era gennaio 2018. Un inverno di un freddo sovrannaturale. Ero all’inizio del settimo mese di gravidanza, la mia seconda gravidanza. A casa avevo già un Giacomo tutto occhi e “pecché” di 2 anni e mezzo. Affrontavo il tutto con quella spavalderia un po’ tipica di chi ha già fatto una cosa e dà anche delle piccole dritte. Lava bene le verdure col bicarbonato, passeggia che così non ti si gonfiano le caviglie. Come quando insomma sei al secondo anno di università e confidi alle matricole il meglio e il peggio dell’ateneo, ecco.
E invece l’8 gennaio 2018, alle 20, senza epidurale, dopo una visita che riecheggia ancora nei corridoi del mio cervello, all’inizio del settimo mese di gravidanza ho partorito Valerio. Un chilo e trecentocinquanta grammi di un bambino senza vita, del mio bambino senza vita, che si era attaccato al mio utero a tal punto da sopravvivere in modo straordinario a una malformazione che non avrebbe dovuto condurlo così tanto in là. «Inspiegabile che non avesse smesso di battere prima questo suo minuscolo cuore. Aveva la tua grinta». Come sempre, laddove la scienza si stupisce, giungono le somiglianze degli alberi genealogici. La fronte della nonna, gli occhi della prozia. A Valerio era capitato il caratteraccio tignoso della mamma.
Ricordo tante cose di quel periodo. La prima è, indubbiamente, il freddo. Ho avuto freddo per mesi. Ho iniziato a tremare durante la visita che doveva essere di controllo dalla mia ginecologa. La sua faccia improvvisamente era diventata contratta, trasecolata. «Abbiamo un problema, dobbiamo andare in ospedale». Problema? Che problema? Ho continuato ad aver freddo al Sant’Anna di Torino, dove, nel frattempo, era giunta anche una psicologa. Aveva lo sguardo intelligente e un grosso anello di ceramica a forma di cuore sul dito. Fissai quell’anello per ore, sperando che, che ne so, uscisse Sailor Moon, accendesse i termosifoni e sciogliesse tutto quel gelo. Riportandomi a casa, magari.
«La morte in utero non è esattamente il binario 9 e ¾ di Harry Potter. Quest’aura magica e scaramantica del “se non ne parli non esiste” è forse il condimento più aspro del dolore»
Credevo mi si potessero spezzare le dita dei piedi quando Tamara, l’ostetrica, mi ha detto: «Forza, tesoro, ora spingi». Dovevamo fare in fretta, perché nel frattempo tutto il sangue che evidentemente non circolava più nei miei arti era finito nei miei organi interni. E mentre “spingi forte” ora non faceva più rima con “vita”, io dovevo schivare una emorragia interna e salutare per la prima volta e per sempre il mio Valerio. La psicologa mi aveva consigliato di prendermi un momento per abbracciarlo. Lì per lì pensai che fosse pazza e quello sguardo intelligente solo un barbatrucco. Mio marito non volle farla questa cosa dell’abbraccio. Come biasimarlo? Ti trovi catapultato nell’anticamera del dolore più assurdo e devi pure accoglierlo e abbracciarlo?
La vera cosa che mi porto dentro è l’inconsistenza delle informazioni. Conosci cosa voglia dire un lutto perinatale solo se ci passi. Però, ecco, la morte in utero non è esattamente il binario 9 e ¾ di Harry Potter. Quest’aura magica e scaramantica del “se non ne parli non esiste” è forse il condimento più aspro del dolore.
Accade a una gravidanza su 6
Simona Maggi, psicologa e psicoterapeuta, referente di CiaoLapo Piemonte (vedi sotto), quell’anno lì è stata la mia stampella emotiva e fisica per convivere col freddo e per riacquistare calore. La prima seduta fu un’ora di silenzio. Io non sapevo cosa dire e lei ha saputo ascoltare quel dolore muto. Accade a una gravidanza su 6. La maggior parte delle perdite avviene nelle prime 20 settimane. Non abbiamo noi insomma la sfiga, la lettera scarlatta, lo sbaglio senza nome. Succede, succede tantissimo e se ne dovrebbe parlare di più proprio per non costruire un castello di isolamento e senso di inadeguatezza. Il dolore per una perdita non ha una scaletta di importanza, ogni dolore ha la sua dignità. Ogni dolore va affrontato, per essere superato, per poter continuare a vivere.
A dicembre 2019, il giorno di Santa Lucia, è nato Giordano. Sono i “figli arcobaleno”, quelli che riportano la luce dopo la tempesta, ma che non prendono il posto della tempesta, perché quella c’è, c’è stata. Ed è giusto così. Quindi Valerio mio, a 3 anni da quella notte che mi prese a schiaffi, comunque sia stai qui, in queste vene. Sei riuscito persino a ritagliarti uno spazio che non è più solo dolore, o forse sono io che ho imparato a fare quella cosa di ballare sotto la pioggia. E in questo casino di rumori e risate e giochi che cadono per terra, da questo altro lato del mondo intendo, non passerai mai. E quel bacio, quell’unico, minuscolo bacio sulla fronte, è comunque un ricordo di labbra e pelle che sa di eterno. Ciao a te, e a tutti i Valerio che sono passati per altre mamme, restando giusto il tempo di un saluto.
Un aiuto per i genitori
di Flora Casalinuovo
Ogni anno, nel mondo, 2 milioni e mezzo di bambini nascono morti o muoiono subito dopo il parto. In Italia questo destino travolge migliaia di piccoli e le loro famiglie, che spesso vivono la tragedia in solitudine e senza gli strumenti per affrontarla.
«La perdita di un bambino è qualcosa di innaturale: ci aspettiamo l’addio a una persona anziana, mentre un lutto prima che arrivi la vita è inspiegabile» spiega Micaela Darsena, psicoterapeuta e volontaria di CiaoLapo, una delle pochissime onlus che in Italia aiuta questi genitori (www.ciaolapo.it). «Bisogna dare alle coppie spazio e tempo per metabolizzare l’evento, per superare un parto che non ha portato gioia e vita, ma solo dolore. Noi consegniamo agli ospedali una memory box, una scatola in cui raccogliere con calma i pochi ricordi del bambino. Una foto, un abbraccio al corpicino del bebè, per quanto strazianti, sono fondamentali per elaborare il lutto, per rendersi conto di quello che è successo e poi, pian piano, superarlo. Ci vogliono diversi mesi: bisogna imparare ad accogliere la tristezza o, peggio ancora, la depressione, ed è più facile con l’appoggio degli esperti e di chi sta passando lo stesso travaglio».
Ben più delle metà delle famiglie, dicono i dati dell’associazione, cerca una nuova gravidanza entro un anno. «Si tratta di un altro momento molto delicato» continua la dottoressa Darsena. Circa il 20-25% di questi lutti, infatti, rimane senza una causa apparente e oggi non esiste ancora un registro nazionale per le morti prenatali. In genere, dopo la perdita le mamme vengono sottoposte ad accertamenti che evidenziano o meno patologie particolari e, quindi, la gravidanza successiva viene seguita con maggiore scrupolo dagli specialisti.