Si prende il palco, sorride, dosa le pause e modula la voce, come se tenere discorsi fosse quello che fa da sempre. Valentina Letorio, 29 anni, vive in provincia di Milano, è una neuropsicologa che si occupa della riabilitazione di persone con danni cerebrali e qualche giorno fa, a Busto Arsizio, è stata una dei protagonisti del Tedx, la celebre serie di conferenze di origine statunitense cui partecipano leader della cultura, della scienza, dell’imprenditoria. Fin qui, non ci sarebbe nulla di strano. Ma per Valentina parlare in pubblico era più difficile che scalare l’Himalaya. Colpa della balbuzie.
Cosa significasse per lei lo ha rivelato subito: «Mi sentivo in un campo minato, le bombe erano le parole che non uscivano». Quella sensazione è ora un ricordo lontano. «Salire sul palco è stato come vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi. Solo 5 anni fa non lo avrei mai fatto: la balbuzie non è solo difficoltà a parlare, ma paura vera in tutte le situazioni in cui devi metterci la faccia. Io le evitavo come la peste. La discussione della tesi in Psicologia è stato uno dei momenti più umilianti: ogni 5-6 parole mi bloccavo, sudavo, ho pensato di non meritarmi affatto la lode».
Quando sono arrivate le prime avvisaglie della balbuzie?
«Alle elementari, con piccoli episodi a cui davo poco peso. Poi è esplosa alle medie e ho iniziato a inventarmi dei trucchi per sopravvivere: andavo in bagno durante le ore di narrativa, cercavo scuse per evitare l’interrogazione orale. Sono sempre stata brava a scuola, studiavo molto, quindi riuscivo spesso a nascondere il problema. Certo, faticavo il doppio ed ero un’eterna insoddisfatta, perché vivere così non mi piaceva». E i rapporti con gli altri? «Una battaglia. Quando dovevo presentarmi al telefono, senza sapere chi avrebbe risposto, registravo la mia voce per evitare brutte figure. Tra i compagni non mancavano sorrisetti e battute, ma per fortuna non ho mai avuto a che fare con il bullo di turno. Così, per anni, ho fatto lo struzzo senza affrontare il mio disturbo».
E i rapporti con gli altri?
«Una battaglia. Quando dovevo presentarmi al telefono, senza sapere chi avrebbe risposto, registravo la mia voce per evitare brutte figure. Tra i compagni non mancavano sorrisetti e battute, ma per fortuna non ho mai avuto a che fare con il bullo di turno. Così, per anni, ho fatto lo struzzo senza affrontare il mio disturbo».
Quando ha iniziato?
«Il primo tirocinio post-laurea è stato una batosta. Non riuscivo a fare alcuni test psicologici ai pazienti, faticavo a rapportarmi. Ho capito che non potevo andare avanti. Nel dicembre del 2013 ho conosciuto per caso Giovanni Muscarà, che ha ideato il metodo Vivavoce. Mi sono convinta a provarlo e a giugno del 2014 ho affrontato l’orale dell’esame di Stato senza un tentennamento. Da allora non balbetto più e oggi lavoro al Centro medico Vivavoce come responsabile dell’area psicologica: coordino i colleghi, ma “scendo in campo” anch’io. Durante il primo colloquio racconto spesso del mio passato per stabilire un’empatia. Punto sul dialogo e sulle emozioni, soprattutto con gli adolescenti. Poi, quando iniziamo con le lezioni vere e proprie, li spingo a buttarsi: quasi tutti si nascondono dietro alla giustificazione che tanto non ce la faranno mai e io scommetto il contrario. Ma senza giocarmi dei soldi! (ride, ndr)».
Come funziona questo metodo?
«È una riabilitazione motoria. Si lavora con logopedista, psicologo e fisioterapista per imparare i giusti movimenti di bocca, lingua e mandibola che portano a parlare. Il percorso dura 6 mesi e prevede incontri in cui si simulano telefonate, interrogazioni scolastiche e colloqui di lavoro. Io sono rinata, mi sento finalmente libera di parlare e quando inizio poi devono “spegnermi”. Sulla balbuzie c’è poca informazione. Si pensa che derivi da un trauma, magari infantile, ma se così fosse balbetterebbe la metà degli abitanti della Terra. Le ultime teorie neuroscientifiche la legano a un problema in quelle aree del cervello deputate al controllo dei movimenti connessi al linguaggio. In Italia, purtroppo, pecchiamo sul fronte della ricerca e della sensibilizzazione».
In che modo sfatare questi stereotipi?
«Io lo faccio andando nelle scuole. Si etichetta il balbuziente come il complessato che rimarrà così a vita e la persona entra in un circolo vizioso senza uscita. Invece il primo passo è informarsi. Pensiamo alla paura del buio: l’abbiamo provata quasi tutti da bambini e cercavamo una piccola luce proprio per vedere cosa dovevamo affrontare. È il metodo per superare qualsiasi ostacolo: ci si mette a tavolino, si studia e si prepara un piano d’azione».
Cosa la aspetta dopo il palco del Tedx?
«Qualsiasi cosa, non mi pongo limiti. Prima mi sembrava di avere delle catene, ora le ho strappate».